18 Giugno 2023

Burson: il grande rosso della bassa Romagna

Parliamo di Romagna. Lo vogliamo fare perché appena finita l’emergenza c’è da rimettere in piedi il quotidiano anche delle molte aziende che hanno sofferto la sciagura di questa alluvione.
Parliamo di Romagna e parliamo di vino. Lo vogliamo fare in maniera insolita tralasciando il fresco Sangiovese cantato nelle ballate di liscio ma concentrandosi su il vino rosso tenace della bassa poco conosciuto ai più.
Un viaggio nella Romagna post alluvione per raccontarvi che anche in campo enologico questa terra gioviale e famosa per le vacanze estive ha nel suo paniere un vino che merita molto di più.


Siamo in quella che localmente è detta “la bassa” e stare pianura non è semplice come sembra e non solo per i rischi idrogeologici.
Certo il terreno è più facile da lavorare, si fatica meno che in collina ma la brezza arriva di meno, la nebbia ristagna e il caldo estivo non trova refrigerio.
Una pianura un tempo malsana figlia delle bonifiche dove però la terra e feconda e quasi magica.
In
un pezzo di questa pianura, quella che ha come epicentro il paese di Bagnacavallo in Romagna, oltre i frutteti sterminati nasce uno dei vini forse meno noti e valorizzati d’Italia.
In questo fazzoletto di terra romagnola  l’uva Longanesi ha trovato il modo di sfidare il clima e lo spazio per regalare, a chi sa cercare, un grande rosso di pianura: il Bursôn. 


Lo sconosciuto che sconfigge sua maestà Brunello

Ancora mi meraviglio come nel 2019 questo vino capace di gareggiare con un re della viticultura italiana come il Brunello (e spesso, aggiungo, vincere nelle degustazioni alla cieca) sia ancora sconosciuto a tanti amanti del vino che girano l’Italia in cerca di “chicche” enologiche.
Il  Bursôn mi è capitato di cercarlo e chiederlo fuori dalla zona di produzione, una manciata di ettari (200 circa) divisi tra 18 aziende.
Niente, nessuno sapeva cosa fosse e mi guardavano come fossi un marziano.
Il Bursôn sfugge ad ogni logica accademica per quel suo modo graffiante di invecchiare, di raccontare la propria terra sincera di straripante allegria.
Resta un vino ottimo che merita molta più fama dell’attuale.

Daniele Longanesi, figlio dello scopritore della vigna

Burson e l’uva Longanesi dall’acino verde

“Il Bursôn” era il soprannome di Antonio Longanesi che negli anni ’40 del secolo scorso notò come abbracciata alla grande quercia che sorgeva (e ancora sorge) nell’aia del suo podere crescesse rigogliosa una vite i cui frutti erano un gioioso pasto per tanti uccelli.
Un’uva forte, dal grappolo compatto, con quell’unico acino verde che rimane alla fine della tardiva maturazione.

Sergio Ragazzini, l’enologo del Burson

La prima vigna arrivò nel 1956 e nel 2000, quell’uva,  è stata iscritta al Registro delle Varietà con il nome di Uva Longanesi. Ma c’è voluto del tempo perché il  Burson trovasse la sua strada.
Alle soglie del 2000, precisamente nel 1997, l’enologo Sergio Ragazzini portò sul mercato le prime bottiglie.
Il resto è storia, poco conosciuta ai più: Consorzio per la tutela creato nel 1999 a Bagnacavallo e tante iniziative. Eppure il Bursôn non ha la fortuna che merita ed è sconosciuto ai più.

Burson il re dei polifenoli

Colpa dei numeri, come sempre accade in una società come la nostra, dove sono quest’ultimi a fare  la differenza. Numeri che attirano investimenti e con questi anche la giusta comunicazione.
Ma grandi numeri il Burson li ha lo stesso. Quasi 40g di estratto secco al litro rispetto al 28-30 del Sangiovese, per non parlare della quantità dei polifenoli totali tanto importanti per l’organismo umano.

Oggi il medagliere delle aziende produttrici di Burson è ben fornito. Eppure questo vino forte e longevo rimane troppo spesso confinato nel suo perimetro di origine.
Difficilmente scavalca gli Appennini anche se vola in paesi lontani dove si guarda meno all’etichetta blasonata ma più alla bontà del vino.


Il Burson oggi

Due le etichette: quella Blu un Burson di pronta beva più “semplice” ma non privo delle sue caratteristiche principali con un bel  frutto fresco, profumo di viola e prugna, more, mirtilli adatto a grigliate ma anche a paste al sugo e quella Nera, il grande Burson.

Uve raccolte in tempi diversi e fatte appassire, passaggio in tonneau per circa 2 anni. Regala atmosfere preziose di grande fascino, dove le nota di prugna si fa più intensa, matura, cioccolato, eleganti noti speziate. Tannini che evolvono magnificamente.
Un vino che, anno dopo anno, si ammorbidisce senza perdere freschezza, acquistando la rotondità dell’età.
Un vino dove il legno fa da “contenitore” e non da dispensatore di aromi. Un vino dove il potenziale dell’uvaggio può permettersi di affrancarsi dalle note rustiche e addolcirsi diventando perfetto per accompagnare sostanziosi ma eleganti piatti di cacciagione.


Parlare con Sergio Ragazzini e con Daniele Longanesi di Burson e dei vini meno conosciuti della Romagna è sempre un piacere.
La storia non cambia ma non cambia neanche il loro entusiasmo e la voglia di raccontare.
Qui si ritrova quella volontà di sperimentare senza abbandonarsi alle richieste eccessive di un mercato che pare voler livellare anche il gusto. Qui si intercetta il rapporto che corre tra l’uomo e la passione per il suo lavoro e la sua terra.

Bella sorpresa della nostra degustazione il rosato dove il Burson dona a piene mani i suoi profumi insieme alla freschezza gustativa.

E se il Burson è il cantastorie di questa terra romagnola con lui ci sono altri attori che ce la mostrano. Altri vini e vitigni  che devono far conto con quei maledetti numeri, come Rambèla a bacca bianca o poco più in là il faentino Centesimino amato da Veronelli.
Ma il re resta il Burson che sa invecchiare come solo un grande attore può fare.

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