Trekking di primavera in Italia: Percorsi imperdibili tra natura, storia e mare cristallino

Trekking di primavera in Italia: Percorsi imperdibili tra natura, storia e mare cristallino

Dalla Liguria alla Sardegna, passando per Veneto, Toscana e Puglia, il portale suggerisce 6 itinerari suggestivi dedicati alla natura, alla storia e all’arte per ammirare tutte le sfumature dell’Italia e della bella stagione.
Aria frizzante e natura in trasformazione: è tempo di primavera ed escursioni, attraverso territori che si risvegliano, cambiando colori e profumi sotto i caldi raggi del sole.
Con l’arrivo della bella stagione, cresce la voglia di brevi fughe rigeneranti, per contemplare la bellezza della natura e il nostro Paese è ricco  di itinerari, da percorrere a piedi o in bici, dei quali innamorarsi.
Per l’occasione, Campeggi.com, il portale leader in Italia per campeggi e villaggi vacanze, ha selezionato 6 percorsi di trekking, da Nord a Sud, per immergersi nella bellezza della primavera: dal Sentiero Verdeazzurro in Liguria, al trekking per raggiungere la Grotta Su Marmuri, in Sardegna. Ecco i cammini per escursionisti, più o meno esperti, che uniscono meraviglie naturali, pause rilassanti, visite a siti culturali e sport all’aria aperta.

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Il sentiero verdeazzurro, Liguria

Un percorso panoramico che si snoda nel Parco Nazionale delle Cinque Terre, in Liguria, è il Sentiero Verdeazzurro, che deve il suo nome ai boschi di macchia mediterranea e alla vista mozzafiato sul mare.
Il tratto da Levanto a Monterosso al Mare, vanta un panorama fatto di spiagge, case color pastello e scalini che si inerpicano tra le scogliere toccando aree pittoresche, dai vigneti terrazzati che portano a Vernazza, al promontorio sul quale si erge Corniglia.
Da qui, il cammino prosegue verso Riomaggiore (un tratto per escursionisti più esperti), toccando anche Campiglia e Portovenere, e, tra pinete e pareti di roccia bianca, scivola poi verso la parte finale del Parco.

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La lungolago da Lazise a Bardolino, Veneto

Sul Lago di Garda, un tratto di costa che incanta per la sua bellezza è il percorso Lungolago da Lazise a Bardolino, in provincia di Verona. Questa passeggiata, alla portata di tutti, permette di raggiungere la destinazione finale in poco più di un’ora di cammino.
Il terreno è pianeggiante, ricco di spiagge e aree verdi in cui sostare, ma anche bar e ristoranti in cui fermarsi per assaggiare le delizie locali e contemplare le tranquille acque del lago. Il percorso permette inoltre di visitare i centri storici di Lazise, Garda e Bardolino, quest’ultimo celebre per   il suo borgo e i suoi vigneti, punto di forza del turismo locale.

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Parco Naturalistico di Lio Piccolo, Veneto

Un itinerario naturalistico per immergersi nella laguna di Venezia: il Parco Naturalistico di Lio Piccolo, a due passi da Cavallino-Treporti, è uno spettacolo di barene, valli da pesca e casoni di pescatori.
Pochi chilometri di percorso su asfalto, adatti a ogni tipo di camminatore, portano alla lingua di terra che ospita il borgo di Lio Piccolo, un luogo immerso nella natura, dove, in alcuni periodi dell’anno, si possono ammirare anche i fenicotteri rosa.


Parco della Maremma, Toscana

Il Parco della Maremma, in provincia di Grosseto, è un’area naturale protetta con itinerari alla portata di tutti.
Tra questi spicca  il percorso Le Torri, perfetto per esplorare il parco godendo di viste panoramiche eccezionali sulla pianura dell’Ombrone, la catena dell’Uccellina, il mare e le isole dell’arcipelago toscano.
Gli escursionisti più esigenti ameranno invece il percorso di Poggio Raso che, tra i magnifici panorami della costa e dell’entroterra, raggiunge un punto ricco di grotte e di una fitta vegetazione che in passato hanno fatto da sfondo alla latitanza di leggendari e pericolosi briganti.

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Il cammino delle torri costiere, Puglia

Storicamente, il Salento è sempre stato oggetto di attacchi da parte di diverse popolazioni del Mediterraneo. Per questa ragione, la sua costa è caratterizzata da numerose torri di avvistamento, come Torre Lapillo e Torre Colimena. Seguendo il Cammino delle Torri Costiere, a Porto Cesareo, è possibile perdersi tra queste “guardiane silenziose” che proteggevano le coste dalle possibili incursioni saracene, immergendosi inoltre nel Parco Naturale Regionale Otranto – Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase, un patrimonio storico e naturalistico tutto da esplorare.

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Trekking per la grotta Su Marmuri, Sardegna

La Grotta Su Marmuri è una delle meraviglie naturali della Sardegna e deve il suo nome al particolare aspetto della roccia calcarea di cui è composta, simile al marmo.
Il percorso panoramico che porta al suo interno attraversa l’altopiano di Ulassai, tra boschi spettacolari e viste sulle montagne dell’Ogliastra, snodandosi tra rilievi scoscesi e profonde gole. Da qui è poi possibile raggiungere le cascate di Lequarci e lo stesso borgo di Ulassai, noto per le opere dell’artista internazionale Maria Lai.

 

 

 

 

 

 

Lo sciachetrà, il vino eroico delle Cinque Terre

Lo sciachetrà, il vino eroico delle Cinque Terre

Vini unici e speciali quelli coltivati sulle impervie colline liguri a picco sul mare. Liguria, una terra dove i  vitigni autoctoni sanno regalare profumi e sensazioni al palato uniche. Tanti quelli liguri di cui si potrebbe parlare: dal pigato al rossese, dal dall’ormeasco ai colli di Luni e tanti altri ancora. Un patrimonio di biodiversita enoica da cullare e conservare.
Di seguito abbiamo deciso di parlarvi del passito per eccellenza della riviera, un vino dal nome musicale unico in tutti i sensi. Considerato uno dei vini più preziosi e rappresentativi della viticoltura eroica ligure, grazie alle difficili condizioni di coltivazione sui terrazzamenti ripidi affacciati sul mare.


Il “rinforzato” amato da Telemaco Signorini

Lo sciachetrà è un vino passito, dolce e liquoroso, prodotto nelle Cinque Terre da uve che provengono dai celebri terrazzamenti.
Oltre a vantare una storia millenaria e ad essere conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, ha ottenuto la Denominazione di Origine Controllata ed è stato riconosciuto come presidio Slow Food.
Nei luoghi di origine questo vino è spesso chiamato col nome tradizionale di «rinforzato» o «vino dolce», rispettivamente refursà e vin dùse nei dialetti locali della lingua ligure.
Il termine “sciachetrà”, con cui il rinforzato è commercializzato e ormai ovunque conosciuto, sembra essere invece piuttosto recente, essendo attestato soltanto verso la fine dell’Ottocento.
Pare che uno dei primi a utilizzarlo sia stato il pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, il quale, nel suo scritto di memorie Riomaggiore, ricordando le tante estati trascorse nel borgo delle Cinque Terre, afferma che «in settembre, dopo la vendemmia, si stendono le migliori uve al sole per ottenere il rinforzato o lo sciaccatras».


Quel nome unico dall’origine incerta

L’etimologia del vocabolo è incerta. La più probabile è quella che lo fa derivare dal verbo «sciacàa» (schiacciare), utilizzato per indicare l’operazione di pigiatura dell’uva.
Se questa ipotesi fosse vera, se ne potrebbe allora dedurre che la denominazione più antica e originaria sia proprio quella di «sciachetrà», sostituita poi in tempi più recenti da «refursà».
Accade spesso, infatti, che le parole dialettali più antiche e più lontane dall’italiano vengano via via sostituite, a causa del predominio sociale e culturale della lingua nazionale, dai corrispondenti vocaboli toscani, se pur sottoposti a un processo di assimilazione fonetica alla lingua locale.
D’altro canto, vi è da osservare che mentre il termine «refursà» indica una caratteristica propria del vino passito, il vocabolo “sciachetrà” rimanda invece a un’operazione, quella della pigiatura, compiuta per qualsiasi tipo di vino.
Quel che è certo è che la presenza del suono /k/ lungo – ossia della doppia “c” – è dovuta all’erronea comprensione del toscano Signorini, come dimostra la circostanza che nello scritto del pittore macchiaiolo si trovano frequentemente simili errori di trascrizione e soprattutto come conferma il dato di fatto che nei dialetti locali della lingua ligure non esistono consonanti doppie.
La stessa Cooperativa Agricoltura delle Cinque Terre è incorsa nel medesimo errore, mutando la denominazione «sciachetrà» che compariva originariamente sulle sue bottiglie in «sciacchetrà» e venendo seguita sulla stessa strada dal Parco Nazionale delle Cinque Terre e da altri produttori.


Entriamo nel bicchiere…

Lo sciachetrà viene prodotto con le qualità d’uva Bosco (60%), Albarola e Vermentino (40%).
Si tende comunque a preferire l’uva Bosco in quanto la buccia degli acini è più resistente e quindi si presta meglio all’appassimento senza rompersi.
Solo i grappoli migliori e più maturi vengono raccolti a mano, una pratica necessaria per via della pendenza dei vigneti. Le uve sono lasciate appassire per settimane su graticci o in ambienti ben ventilati, concentrando zuccheri e aromi. Dopo la pressatura, il mosto fermenta lentamente e il vino viene affinato in acciaio o legno, spesso per anni, per sviluppare la sua complessità.
Ha un colore dal giallo dorato al giallo ambrato con riflessi dorati, intensi e brillanti. Al naso è straordinariamente complesso. Si percepiscono note di albicocca disidratata, fichi secchi, miele, frutta candita e scorza d’arancia. A questi si aggiungono aromi di mandorla tostata, spezie dolci e lievi accenni di salinità, che ricordano il mare.
In bocca è dolce ma mai stucchevole, con un perfetto equilibrio tra dolcezza e acidità, che dona freschezza al sorso. Le note di miele e frutta secca sono bilanciate da un lungo finale minerale, caratteristico del territorio.
Si sposa alla perfezione con dessert a base di mandorle, crostate di frutta secca e biscotti tipici liguri come i canestrelli.  Straordinario anche con formaggi stagionati o erborinati, come il Gorgonzola o il Castelmagno. Può essere degustato anche da solo, come vino da meditazione, grazie alla sua complessità.
Da ricordare che la quantità prodotta è molto ridotta, il che rende lo Sciacchetrà un vino esclusivo e ricercato a livello internazionale.

 

Camminare a fine estate nei luoghi abbandonati dal turismo di massa

Camminare a fine estate nei luoghi abbandonati dal turismo di massa

Sardegna, Liguria, Calabria, Sicilia, Molise e Venezia fuori stagione. Itinerari splendidi solo per camminatori “controcorrente” di settembre.
Mentre tutti tornano a lavoro e, pian piano, le città riprendono i loro ritmi incessanti, c’è chi pensa di proseguire con ancora un po’ d’estate per godere della bella luce settembrina, prima del lungo inverno.
E’ il popolo dei viaggiatori di settembre, quelli che non amano tuffarsi nelle calche agostane, nel traffico da bollino nero ma pazienti, spesso anche soffrendo in città, aspettano il rientro di tutti per concedersi il momento più giusto per viaggiare, quello meno affollato.
Anche nel popolo dei camminatori sono tanti gli amanti di settembre che cercano nella fine della bella stagione il silenzio dei propri passi e la quiete per ricominciare al meglio un nuovo anno.

Con la Compagnia dei Cammini settembre è un mese ricco di viaggi tra i boschi quasi deserti, le spiagge ormai vuote in cui rubare gli ultimi tuffi della stagione estiva e i piccoli borghi del nostro Paese, abbandonati dai turisti.

La via dei Banditi

In Sardegna sul cammino dei banditi

E’ il caso della Sardegna dove a settembre si può fare il cammino dei Banditi, dall’Ogliastra alla Barbagia dedicato solo a chi è ben allenato.
Un percorso avventuroso e selvatico che unisce alcuni dei luoghi legati alle vicende del banditismo sardo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Da Ulassai a Oliena sulle tracce di Samuele Stocchino, detto la Tigre d’Ogliastra, Giovanni Salis, detto Corbeddu e tanti altri.
Tra storia e leggenda, si camminerà sui sentieri che percorrevano, si visiteranno le grotte dove si rifugiavano, si dormirà nei boschi secolari sotto gli stessi alberi testimoni di tante vicende legate a questa pagina di storia.
Si parte dall’Ogliastra per inerpicarsi giorno dopo giorno fino al Gennargentu sulle cime più alte dell’isola ed entrare così in Barbagia.
Un viaggio fuori dalla Sardegna più conosciuta, un viaggio autentico: sul cammino non mancheranno gli incontri con i pastori che ancora vivono secondo il “codice barbaricino”.
Chi si dava “alla macchia” in questi luoghi remoti partiva con una scorta di provviste di prodotti tradizionali (pane carasau, formaggio), si integrava con quanto veniva offerto o si riusciva a ottenere lungo la strada: questa sarà anche la provocazione di questo cammino veramente wild. Ovili, grotte, ripari sotto la roccia saranno i nostri punti tappa. Si dorme sempre all’aperto, grazie a ripari naturali o al semplice telo tarp che potrà diventare un rifugio.

La via del sale

La via del sale fra Liguria e Lombardia

Tra la Liguria e la Lombardia, invece, prima della stagione delle piogge, si può percorrere la Via del Sale  con un itinerario solo per camminatori esperti identificato a partire da quel fascio di percorsi che, già da tempi antichi, collegavano l’Oltrepò Pavese alla costa ligure di Camogli e Portofino per consentire ai mercanti il trasporto del sale con le loro carovane di muli.
La partenza è da Varzi, importante borgo commerciale nel XIII secolo, di cui oggi rimangono ancora le antiche torri della cinta muraria; si passa poi in Piemonte, per attraversare l’Appennino ligure e raggiungere infine il mare.
Il percorso si snoda fra rigogliosi boschi e ampi crinali, prevalentemente su sentieri e mulattiere, in strette e affascinanti valli e con la vista che spesso si spinge fino alle lontane Alpi.
Si passa per diversi insediamenti rurali per capire come in questi luoghi si vivesse nei secoli passati: Varzi, Castellaro, Torriglia, Uscio e giù fino a Portofino con con un tuffo nel mare di San Fruttuoso; antichi borghi ricchi di fascino, panorami emozionanti e una grande accoglienza, compresa l’ottima cucina locale, renderanno speciale questo cammino.

La costa jonica

Nella Calabria meno conosciuta

E ancora si può tornare a vivere una Calabria diversa da quella che solitamente visitiamo l’estate per un cammino adatto a tutti lungo la costa ionica calabrese, nella punta estrema della penisola italiana, con le montagne dell’Aspromonte a fare da cornice tra l’azzurro del mare e del cielo e il bianco delle rocce.
Camminando si potranno ascoltare il frangersi delle onde del mare, i suoni del vento e degli uccelli e con la possibilità di rigenerarsi con un bagno nelle splendide acque del mare Ionio.
La luce del sole che tramonta sull’Etna si trasforma in una scenografia da immortalare in foto e che sicuramente rimarrà a lungo impressa nella mente di ognuno di noi.
Ospitalità, mare limpido, spiagge infinite e deserte, camminate tra i profumi della macchia mediterranea e degli agrumi, le fiumare, i borghi arroccati in lontananza, cibo genuino e tradizionale saranno i punti forti di questo viaggio in una terra poco conosciuta e lontana dal “tradizionale” turismo di massa legato al mare… che sarà tutto per noi e per le tartarughe Caretta Caretta.
Questo tratto di costa infatti rappresenta l’area di nidificazione più importante d’Italia per questa specie, come accertato dai più recenti studi eseguiti dall’Università della Calabria di Cosenza.

Il cammino dei Sanniti

In Molise sul cammino dei sanniti

A settembre si può anche approfittare del bel tempo per visitare luoghi sconosciuti e inediti come il Cammino dei Sanniti in Molise solo per camminatori esperti.
Un percorso lungo le tracce di un popolo scomparso attraverso una storia fantastica, di coraggio e lotta per la libertà.
Sulle orme di un romanzo, Viteliù, che significa Italia, nel linguaggio antico dei popoli italici, perché l’Italia nacque proprio lì e nacque per difendere libertà e autodeterminazione di ben dodici popoli appenninici sotto la guida di Sanniti e Marsi.
Questo viaggio sulle tante tracce rimaste di un popolo antico è destinato a chi ama la storia e le sue suggestioni.
Così le mura ciclopiche su un monte diventano un accampamento, le basi di un tempio riprendono vita e ogni sasso squadrato saprà raccontare storie antiche come il Santuario della Nazione, la città del Toro Sacro, la Pietra-che-viene-avanti, l’antro di Kerres. Senza dimenticare il presente: incontri con persone vere, natura e cultura. Nella prima parte del viaggio, l’ambiente sarà più montano e si saliranno alcuni monti panoramici, tra cui il Monte Kaprum e il Monte Campo, entrambi di circa 1.750 metri. Si cammina, poi, sul tratturo Celano – Foggia, uno dei tratturi principali che collegavano Abruzzo, Molise e Puglia per il trasferimento stagionale delle greggi.

La Magna Francigena

In Sicilia sulla Magna via Francigena

E infine la Sicilia, a fine settembre già più tranquilla da scoprire a passo lento lungo la Magna Via Francigena, un percorso da fare solo con un buon livello di esperienza.
Questa è una delle più importanti vie storiche siciliane, un tempo strada romana fino a diventare il fulcro del sistema viario normanno.
È anche la testimonianza che anche la Sicilia nel Medioevo partecipò attivamente al fenomeno del pellegrinaggio.
Da questa strada che collega la costa nord a quella sud e che attraversa il cuore dell’isola, è passata la storia della Sicilia e dell’Europa intera, pellegrini, soldati, viaggiatori, arabi, greci, normanni: qui si è incontrato il Mediterraneo e qui si è formata l’Europa.
La Magna Via è lunga quasi 140 km da farsi in sei tappe, le più belle e selvagge, tralasciando quelle con più asfalto e paesaggi eccessivamente antropizzati.
Si parte da Piana degli Albanesi alle porte di Palermo, patria del miglior cannolo siciliano, attraverseremo paesi e borghi evocativi come Corleone, Prizzi, Sutera, e concluderemo alle porte di Agrigento, a Racalmuto, il paese che diede i natali al grandissimo Leonardo Sciascia. Percorrere oggi la Magna Via significa tante cose, ma soprattutto dare opportunità di lavoro e di sviluppo di un turismo sostenibile a chi vive nella Sicilia interna. Significa anche sostenere concretamente le strutture ricettive che hanno avviato la loro attività e supportare il lavoro dell’Associazione Amici dei Cammini Francigeni di Sicilia, che attraverso il recupero dei sentieri e coinvolgendo attivamente le realtà locali, hanno avviato questo grande progetto.

Camminare e far rinascere le antiche Vie è come accarezzare dolcemente l’anima di un territorio e la Sicilia, con tutta la sua bellezza e ricchezza di storia, arte e natura, ha bisogno di tante carezze, e tante sa restituirne.

Il mondo delle api

Il mondo delle api

Vogliamo parlarvi di api, insetti straordinari che giocano un ruolo fondamentale negli ecosistemi e sulla nostra esistenza principalmente attraverso la funzione fondamentale dell’impollinazione.
Esistono migliaia di specie di api, ma quella più conosciuta è l’ape domestica (Apis mellifera), famosa per la produzione di miele.

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Le api salveranno il mondo

Le api sono, come accennato, i principali impollinatori delle piante, trasportando il polline da un fiore all’altro.
Questo processo è cruciale per la riproduzione di molte specie vegetali e, indirettamente, per la produzione alimentare umana, poiché circa un terzo delle colture dipende dall’impollinazione animale.
Negli ultimi anni, le api come sappiamo sono in grave pericolo poiché minacciate da fattori come l’uso di pesticidi, il cambiamento climatico e la perdita di habitat, elementi che portando a una preoccupante diminuzione delle popolazioni, conosciuta come sindrome dello spopolamento degli alveari.
La loro riduzione rappresenta un grave rischio per la biodiversità e la sicurezza alimentare globale.

Photo credit: PiùChéBella on Visualhunt

Tutte le curiosità su questo straordinario insetto

Le api sono animali straordinari e comunicano tra loro attraverso la danza dell’ape, un movimento che indica la posizione delle fonti di cibo.
Dedite come attività esclusiva alla produzione di miele, ogni ape produce in media solo un dodicesimo di cucchiaino di miele nella sua vita.
Sono oltre mille le specie diverse di api e l’Italia fa la sua parte con le selvatiche e le solitarie. Le api sono insetti particolarmente importanti per la biodiversità, poiché sono impollinatori specializzati per molte piante autoctone italiane. Scopriamo le due tipologie di ape italiana.


L’ape nera del Ponente Ligure

Il Ponente ligure è una sottile striscia di territorio compresa tra le spiagge occidentali del mar Ligure e le creste delle Alpi Marittime che segnano il confine con la Francia e il Piemonte, ed è caratterizzata da strette e lunghe valli, spesso inaccessibili e selvagge.
Nei secoli, gli abitanti di queste terre hanno ricavato spazi coltivabili strappandoli alle pendici rocciose e scavando i tipici terrazzamenti detti “fasce” o “maixei”, ancora oggi teatro di un’agricoltura eroica.
In questa zona di confine, in particolare nel territorio della provincia di Imperia, due sottospecie di api, la bionda (Apis mellifera ligustica), endemica della penisola italiana, e la nera (Mellifera Mellifera) proveniente dalla vicina Francia, si incontrano ibridandosi naturalmente da millenni, dando vita a un ecotipo ligure, comunemente chiamata ape nera del Ponente ligure.
L’ape nera del Ponente ligure è molto resistente: si è infatti adattata al particolare microclima e alla flora locale, gestendo le risorse e volando anche in condizioni climatiche avverse. Osservando alcune colonie in grado di sopravvivere nei tronchi di alberi o in anfratti di roccia, alcuni apicoltori delle valli interne hanno deciso di scommettere su quest’ape, allevandola e cercando di preservarla.
Lo stretto contatto con un ambiente totalmente naturale ha spinto verso una rigida selezione degli individui più forti, che oggi riescono più facilmente a contrastare le minacce che il mondo dell’apicoltura deve fronteggiare, tra cui patogeni, specie aliene, inquinamento e cambiamento climatico.
Nonostante la robustezza di questo impollinatore, la consistente introduzione di diverse sottospecie verificatasi a partire dal secondo dopoguerra ne ha causato una significativa erosione genetica, a cui oggi si unisce l’ulteriore minaccia di un insetto invasivo, la vespa velutina o calabrone asiatico, che nutre le proprie larve cacciando le api in volo. La grande voracità e la forte capacità di colonizzare interi areali, costruendo nidi in luoghi difficili da raggiungere, rende la vespa velutina un vero incubo per api e apicoltori.
Le aziende apistiche che preservano l’ape nera del Ponente ligure sono di piccola dimensione: dall’allevamento delle api ricavano miele – in prevalenza millefiori di macchia mediterranea, erica, castagno, propoli e polline. Nella gestione degli alveari è prassi degli apicoltori lasciare alle famiglie di api un quantitativo di miele sufficiente per affrontare il periodo invernale.


L’ape nera sicula

Non è vero che tutte le api sono gialle e nere.
La livrea che normalmente associamo all’ape è in realtà tipica della ape ligustica, l’ape più diffusa in Italia, tanto da essere definita anche ape italiana.
Esistono api scure, grigie o anche nerissime, proprio in Italia, simili morfologicamente alle api nere africane (dalle quali differiscono però per la minore aggressività): le quali nel dna hanno un miotipo genetico africano.
L’ape nera sicula (Apis mellifera siciliana) ha l’adome scurissimo e una peluria giallastra e le ali sono più piccole.
Ha popolato per millenni la Sicilia e poi è stata abbandonata negli anni ’70 quando gli apicoltori siciliani sostituirono i bugni di legno di ferula (le casse a forma di parallelepipedo usate come arnie) e iniziarono a importare api ligustiche dal nord Italia. L’ape sicula rischiò in quegli anni la totale estinzione, evitata grazie agli studi e alle ricerche di un entomologo siciliano,
Pietro Genduso, che la studiò per anni dopo la classificazione avvenuta ad opera di Montagano nel 1911. Genduso trasmise questa passione a uno studente, Carlo Amodeo, tuttora l’unico l’allevatore di api regine siciliane pure iscritto al registro nazionale.
Gli ultimi bugni di api nere sicule furono ritrovati in un baglio di Carini dove un vecchio massaro apicoltore produceva miele con quel sistema antico. I bugni contenevano alcune famiglie di api che Carlo Amodeo, dopo aver deciso di praticare l’apicoltura professionale, conservò in isolamento sulle isole di Vulcano e Filicudi.
È molto docile, tanto che non servono maschere nelle operazioni di smielatura, è molto produttiva – anche a temperature elevate, oltre i 40° quando le altre api si bloccano – e sopporta bene gli sbalzi di temperatura. Caratteristiche molto importanti per la produzioni in aree dal clima molto caldo.
La nera sicula inoltre sviluppa precocemente la covata, tra dicembre e gennaio, evitando quindi il blocco della covata invernale comune alle altre specie, e consuma meno miele delle altre api. Il miele di ape nera sicula non è invece diverso, dal punto di vista organolettico, da quello prodotto con le api di altre razze.
A lanciare l’allarme sul rischio di estinzione della sottospecie siciliana è stato nel 2008 l’apicoltore Carlo Amodeo, ultimo custode di tre linee genetiche. Oggi sono otto gli allevatori che hanno recuperato le regine da Amodeo si avvalgono della sua esperienza per reintrodurre la sottospecie autoctona e produrre miele.

Riscoperto in Liguria un legume antico: il moco diventa Presidio Slow Food

Riscoperto in Liguria un legume antico: il moco diventa Presidio Slow Food

Un legume molto particolare: minuscolo, irregolare, al tempo stesso antico e adatto alla contemporaneità.
Parliamo del moco delle valli della Bormida, una varietà di cicerchia fino a pochi anni fa pressoché scomparsa, poi riscoperta e ora divenuta Presidio Slow Food.
Una lunga storia, quella del moco: le prime notizie scritte, contenute nell’Archivio di Stato della Repubblica di Genova, risalgono alla fine del ’700, ma si ipotizza che nel savonese, al confine tra le Alpi e gli Appennini, fosse coltivato già nell’Età del Bronzo, quattromila anni fa.
Un legume che, dopo più di mezzo secolo di oblio, torna ad abitare gli orti di un gruppo di produttori liguri, anche grazie a una rara proprietà: la capacità di crescere in scarsità di acqua.

Moco delle Valli della Bormida

Il moco: la cicerchia ligure che rinasce dall’oblio

Rispetto alla cicerchia classica, il moco è più piccolo: i baccelli contengono da uno a tre piccolissimi semi, delle dimensioni tra i 4 e i 6 millimetri.
Una pianta rustica, tenace, resistente ai parassiti e che non soffre i terreni poveri né teme la siccità: per questo motivo, storicamente non è mai mancata negli orti contadini nelle valli attraversate dai tre corsi d’acqua che confluiscono nel fiume Bormida.
«Si seminava, e lo si fa ancora oggi, il centesimo giorno dell’anno, il 10 o l’11 aprile, sessanta giorni più tardi fiorisce e tra la fine di luglio e la metà di agosto si raccolgono i baccelli» spiega Gianpietro Meinero, segretario della Condotta Slow Food Alta Valle Bormida e referente del neonato Presidio.
Il difetto? «Richiede molto lavoro: si semina a mano, si estirpano le erbacce a mano, si raccoglie a mano e non esiste neanche un setaccio che vada bene per tutti i semi, perché hanno dimensioni diverse». 

Moco delle Valli della Bormida. Foto Oliver Migliore, pianta verde

Così, una volta raccolti i baccelli e lasciati ad asciugare al sole per qualche giorno, la prima domenica dopo ferragosto la tradizione vuole che i produttori – quelli che per ora hanno aderito al Presidio sono quattro – si riuniscano attorno a un tavolo e li sgranino a mano.
«I semi più piccoli, quelli che tendono a spezzarsi, vengono macinati e trasformati in farina, con cui si prepara una deliziosa farinata – aggiunge
il referente dei produttori, Elvio Bonino –. Gli altri, ideali per le zuppe, li confezioniamo interi in sacchettini».

Moco delle Valli della Bormida. Foto OliverMigliore, zuppa di mochi

I “mangia mochi”

I quantitativi raccolti sono ancora ridotti: nel 2022, prosegue Bonino, grossomodo la produzione complessiva si è attestata sul quintale.
Ripensando alla situazione di dieci anni prima, quando la coltivazione del moco era praticamente scomparsa, si tratta di un risultato incoraggiante.
«Ho ancora in mente quando mio padre mi parlava del moco, negli anni ‘50 – ricorda Meinero –. Poi, nel 2011, un anziano del paese mi ha detto che possedeva ancora qualche centinaio di semi. Siccome pochi anni prima avevamo avviato con successo il recupero della zucca di Rocchetta (oggi sull’Arca del Gusto, ndr), abbiamo pensato di far lo stesso con il moco: abbiamo dato a un gruppo di amici una trentina di semi ciascuno, il necessario per seminare un metro quadrato di terra, affinché li riproducessero. Così, in breve tempo, siamo arrivati al recupero».
Un passo alla volta, per «riportare in vita una produzione che stava venendo persa» per dirla con le parole di Bonino, anche se non ancora come all’inizio del secolo scorso, quando i fiori di moco, bianchi con screziature azzurre, coloravano le alture di Cairo Montenotte, di Cengio e degli altri paesi della valle Bormida.
«Pensate che noi di Rocchetta, frazione di Cengio, eravamo chiamati “mangia mochi” – conclude Meinero -. Altri tempi, prima che lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra, qui da noi in particolare del settore chimico, spopolasse la campagna. Ma ora, finalmente, il nostro legume è tornato».
L’area di produzione del moco delle valli della Bormida comprende i comuni di Cairo Montenotte, Cengio, Millesimo, Dego, Murialdo, Calizzano e Cosseria (Savona).


Ricetta: la farinata di moco

Ingredienti:
150 grammi di farina di moco
400 grammi di acqua
40 ml. di olio extravergine d’oliva
1/2 cucchiaino di sale
rosmarino

Preparazione:

Prima di tutto, mescolare la farina in una ciotola con una fusta a mano, fate un buco al centro, versate l’acqua a poco a poco e girate. versate tutta l’acqua con questo sistema. Girate ed
eliminate la schiuma in superficie con una schiumarola; questo per evitare che in cottura si scurisca.
Poi lasciate riposare il composto coperto con un coperchio per almeno 3 ore; girando di tanto in tanto con la frusta a mano ed eliminando la schiuma.
Questo passaggio è fondamentale per sciogliere la farina di moco e creare un composto omogeneo, privo di grumi.
Al termine del tempo trascorso, unite olio e sale e infine girate molto bene per amalgamare il composto.
Versate in una teglia leggera di alluminio o rame leggermente unta di olio. Se gradite aggiunte il rosmarino:
Infine cuocete la farinata nel forno ben caldo a massima potenza 250° sulla parte bassa del forno per 12 minuti.
Poi trasferite al piano medio alto, continuate la cottura abbassando a 200 gradi finché non diventa bella dorata sulla superficie, circa 15 minuti.


Ricetta: panelle fritte di moco

Ingredienti:
500 grammi di farina di moco
20 grammi sale fino
olio di semi per friggere q.b.
acqua circa 1/4 di litri
prezzemolo un ciuffo

Preparazione:
Versate la farina di moco in una pentola capiente. Aggiungete il sale e mescolate le polveri a secco. Ora versate l’acqua a filo, tenendone indietro una dose e iniziate a mescolare con una frusta in modo che no si creino grumi. Mescolate dal centro verso l’esterno.
Versate lentamente l’acqua rimasta continuando sempre a mescolare. La consistenza in questo momento dovrà essere piuttosto liquida, ma sollevando il composto con un cucchiaio dovrà fare “il filo”.
Tritate il prezzemolo grossolanamente: le foglie dovranno restare quasi intere. Ponete sul fuoco il tegame e mescolate di continuo, quando inizierà ad addensarsi la farina, inizierà la vera e propria cottura, bisognerà mescolare con più energia. Ci vorranno circa 30 minuti perché si arrivi al giusto grado di consistenza.
A quel punto aggiungete il prezzemolo e mescolate ancora per distribuirlo uniformemente
Una volta ottenuto un composto omogeneo spegnete il fuoco. Prelevate un po’ di impasto e utilizzando una spatola stendetelo su un piano di marmo, sino ad ottenere uno spessore di 4-5 mm. Lasciate raffreddare leggermente, in questo modo sarà più semplice.
Rifilate i bordi utilizzando un coltello o un tarocco. Cercate di ottenere un rettangolo preciso alto circa 5 cm 13. Da questo ricavate quindi dei rettangolini larghi circa 10 cm 14.
Ripetete quest’operazione stendendo di fianco altro impasto e realizzate così altre panelle Con queste dosi ne otterrete circa 40.
Scaldate abbondante olio in un tegame. Immergete poche panelle per volta e cuocetele fino a che non saranno dorate, girandole su entrambi i lati. Ci vorranno circa 3 minuti. In questo modo si formerà la classica “camicia” e risulteranno croccanti all’esterno e morbide dentro. Scolatele e trasferitele su carta assorbente.
Proseguite in questo modo la cottura. Una volta fritte le panelle potrete scegliere se gustarle da sole o se utilizzarle per farcire panini. In questo caso consigliamo di inserire 5 panelle per ciascun panino. Ad ogni modo consigliamo di gustarle ben calde