A.A.A. cercasi un bianco per la Toscana centrale. Quando il vino nasce in provetta e non dalle zolle della terra.
È stato presentato in estate il progetto per la creazione, a tavolino, di un nuovo vino bianco per la Toscana centrale.
Ma dietro la patina dell’innovazione e della ricerca si nasconde la grande crisi dei rossi e il rischio di snaturare l’anima enologica della regione.

La grande crisi dei rossi
Veniamo all’attualità enologica. Non è certo un segreto di Pulcinella che i vini rossi potenti, quelli del rinascimento vinicolo che da sempre caratterizzano la nostra regione, siano usciti dalle hit parade delle preferenze delle papille gustative degli appassionati di ogni angolo del globo, soprattutto anglosassoni.
Anche qui, come in ogni altro settore, le mode, o meglio, i trend, spesso imposti dagli algoritmi fanno la differenza.
E così la Toscana, patria dei grandi rossi che hanno reso celebre il made in Italy del vino nel mondo – dal Chianti Classico al Brunello di Montalcino, passando per il Vino Nobile di Montepulciano e il Morellino di Scansano – oggi è in sofferenza.
Una crisi profonda, nata ben prima, non facciamoci ingannare dall’ideona dei dazi di Trump, che ha riempito le cantine di invenduti.
Il vino rosso è considerato ormai “roba da intenditori veri”, da accademici, da nostalgici di tempi andati: roba vecchia insomma, poco alla moda.
Il futuro, dicono, è nel vino bianco e il Veneto insegna, con una moltiplicazione del Prosecco degna del miracolo delle nozze di Cana.
Serve un vino frizzante, leggero, poco impegnativo e sostenibile, bene anche se dealcolato da bere davanti a un sushi o a un’insalata vegana.
E allora chi meglio della Toscana, terra di grandi vini, per creare il nuovo “Prosecco italiano”?

Un vino in provetta
Così, lo scorso luglio a Siena è stato presentato un progetto “innovativo”: forse il primo vino inventato a tavolino, battezzato come “il nuovo bianco della Toscana centrale”.
Una procreazione enologicamente assistita del vino del futuro; un segnale di rinascita produttiva capace – nelle intenzioni dei promotori – di compensare la crisi dei rossi e rispondere alla “sindrome del Prosecco”.
Nelle intenzioni, dovrebbe colmare un vuoto enologico – ma, più realisticamente, commerciale – e conquistare i palati raffinati e fighetti come alternativa moderna ai grandi rossi toscani.
Dietro la retorica del rilancio e delle “strategie di filiera” si nasconde però un interrogativo scomodo: davvero la Toscana, terra che ha fatto dei grandi rossi la propria identità culturale prima ancora che economica ha bisogno di inventarsi un bianco in provetta per restare competitiva?
Il sospetto, tutt’altro che infondato, è che il progetto nasca più dalla necessità di arginare il crollo delle vendite dei rossi penalizzati da un mercato saturo e da una concorrenza sempre più aggressiva che da un’autentica esigenza di valorizzare il territorio.
Un’operazione di marketing insomma; diciamocelo senza tanti giri di parole più che di tradizione: dove il brand viene prima del vigneto e il posizionamento commerciale prima dell’anima agricola e del terroir.

Il bianco che c’è, prima di tutti gli altri
Eppure, un bianco simbolo la Toscana ce l’ha già, da molti anni e non di poco conto.
La Vernaccia di San Gimignano è stato non a caso il primo vino in Italia a ottenere la Denominazione di Origine Controllata, nel lontano 1966.
Un’era enologica fa, quando il vino non era uno status symbol da sfoggiare nei salotti buoni in bordolese ma un semplice e spartano fiasco da condividere sul tavolo di qualche osteria di campagna in allegria.
Allora Montalcino era un borgo dimenticato e depresso, il Chianti Classico una terra da cui scappare per rifugiarsi nel grigiore delle città e delle fabbriche e la Toscana del vino non conosceva ancora la fama internazionale.
Dimenticarsi chi siamo e da dove veniamo è sempre il primo grande errore di chi ignora la propria identità.
Quella dela Toscana vinicola è una favola affascinante, nata tra fatica e visione, ma ignorare quella genesi, la rinascita di una campagna che ha saputo unire eleganza, identità e rispetto del territorio è il sintomo di un progetto che non convince.
Inseguire l’idea di un “Prosecco toscano” rischia di apparire come un tradimento del proprio dna. Non basta cambiare il colore nel bicchiere per reinventare una tradizione millenaria.
Forse la Vernaccia di San Gimignano non ha un territorio così vasto da colmare i bilanci di troppe aziende, né è abbastanza market-oriented per i nostri nuovi innovatori enologici, ma resta il simbolo di un’autenticità che non si improvvisa.

Storia di un vino in provetta
Il vino rosso, si sa, lo ribadiamo è “troppo impegnativo”, troppo lento e meditativo per i tempi moderni. Il futuro è bianco, leggero, instagrammabile e magari frizzante.
Nel progetto del nuovo bianco toscano si intravede – neppure troppo velatamente – il riflesso di una Toscana che guarda al Veneto un territorio che produce, vende e conquista il mondo grazie a un prodotto standardizzato e democratico.
Ma la Toscana non è mai stata democratica nel vino: è sempre stata autentica, orgogliosa, imperfetta e adesso non può farsi prendere dalle frenesie dell’invidia del Prosecco.
La sua forza è nel carattere fiero dei suoi rossi, nel tempo che scorre lento nelle botti e nelle barriques, nel profumo di cantine che odorano di suolo e di storia.
Il rischio è perdere il legame tra vino e territorio, tra bottiglia e identità perché un vino non nasce programmandolo a tavolino — e nemmeno nei laboratori dei consorzi — ma nella nuda terra, tra i filari, con le mani sporche di chi sa che l’eccellenza non si progetta ma si coltiva. Anzi si alleva.
Il “bianco della Toscana centrale” forse avrà un suo mercato, forse piacerà ai turisti e agli scaffali omologati dei duty free, ma difficilmente entrerà nel cuore di chi ama davvero il nettare di Bacco.
Tutto il resto sa di esperimento senz’anima, di procreazione enologicamente assistita realizzata in un laboratorio asettico, di un calice senz’odore di terra e senz’identità.

Focus: la Vernaccia: storia di un bianco che non ha bisogno di rinascere
C’è un piccolo problema: come abbiamo sottolineato il vino bianco della Toscana centrale esiste già, e si chiama Vernaccia. Non un vino qualsiasi, ma la prima Doc italiana, ma evidentemente, la cultura e la tradizione non “vendono” più: e allora si inventano nuovi vini, nuovi nomi, nuovi packaging, credendo che i consumatori si bevano tutto.
Noi non ci facciamo ingannare e sappiamo bene che ci sono vini che non inseguono le mode perché sono già la storia.
La Vernaccia di San Gimignano appartiene a questa categoria ristretta: un bianco che non ha mai avuto bisogno di reinventarsi per piacere.
Nata sui colli senesi nei paraggi di San Gimignano, coltivata da secoli tra le torri medievali costruite con lo zafferano della Manhattan del medioevo in filari che respirano la brezza tirrenica, la Vernaccia è il simbolo della Toscana autentica, quella che non scende a patti con il mercato e con gli algoritmi.
Mentre si parla di nuovi progetti “strategici” e di bianchi studiati in provetta, la Vernaccia continua a parlare con la voce antica della sua terra.
È elegante, minerale, longeva — ma soprattutto vera e non ruffiana. Non cerca di imitare nessuno, non rincorre i numeri, non si piega alle logiche del marketing.
È il vino che sa di Toscana senza bisogno di dirlo, quello che resiste alla tentazione di diventare “il nuovo Prosecco” e rimane il bianco più sincero d’Italia.



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