Giusto alcuni giorni fa si è celebrata la giornata mondiale della montagna, Nel calendario delle celebrazioni dedicare una giornata a pensare o meglio ripensare la montagna è quasi rivoluzionario poiché, in un epoca in cui molto si parla e tanto a sproposito di cambiamenti climatici, eventi estremi e similari tanti con grave ritardo stanno comprendendo quanto sia determinante nel giusto equilibrio della natura “la cura” della montagna e dei suoi biotipi.
Così abbiamo fatto una selezione dei prodotti protetti da slow food che con la montagna hanno un legame determinante, per meglio comprendere come la nostra stessa sopravvivenza inizi da lì.
1 – Mieli dell’Appennino aquilano, Abruzzo
Sull’Appennino molti apicoltori vivono il nomadismo (leggi qui). Spesso spostano i loro apiari direttamen te da un’area protetta all’altra. Grazie ad attività produttive e zootecniche di basso impatto ambientale a lta ricchezza di specie vegetali spontanee non compromesse da forme di agricoltura intensiva, in questa zona è possibile ottenere mieli eccellenti.
Nell’areale del Gran Sasso, della Laga e del massiccio del Sirente Velino, tutti in provincia dell’Aquila, sono molto interessanti due mieli monofloreali ricavati dalle essenze più tipiche di queste montagne: la santoreggia (Satureja montana L.) e la stregonia (Sideritis syriaca L.).
Questi due arbusti fanno parte l’uno della famiglia delle Labiate, l’altro della famiglia delle Lamiacee e crescono su prati aridi e terreni calcarei fino a un’altitudine di 1300 metri (la prima) e di 1500 m (la seconda). Le due fioriture si susseguono: da maggio a luglio fiorisce la stregonia e, da luglio a settembre, la santoreggia. La produzione del miele di santoreggia è rara e irregolare ma non trascurabile in alcune zone dell’Appennino abruzzese, Gran Sasso in primis. La stregonia (talvolta confusa con l’ortica per via dell’aspetto) è diffusa in tutto il centro Italia ed è impiegata come decongestionante.
Il miele di santoreggia ha colore ambra chiaro, tendente al giallo verde quando è liquido e al grigio-verde se cristallizzato. Dopo la raccolta tende appunto a cristallizzare rapidamente, formando cristalli una trama molto fine che conferisce al prodotto una consistenza morbida e piacevole in bocca.
Il miele di stregonia, invece, è caratterizzato da un colore molto chiaro, rimane liquido a lungo e ha un sentore lievemente floreale, che si percepisce anche in bocca.
Oltre ai monoflora, la produzione della montagna aquilana offre un millefiori interessante, prodotto sui pascoli montani, in apiari posti a quote superiori agli 850 metri di altitudine. Recenti studi hanno evidenziato come la ricchezza di biodiversità sia direttamente proporzionale all’altitudine montana: oltre la quota di 850 metri si assiste a uno straordinario aumento di fioriture (si va da 80 specie diverse in primavera a oltre 130 in estate). Tra le piante più comuni ci sono numerose graminacee, cistacee e labiate, abbinate a trifoglio bianco, rovo e altre rosacee, papaveri, lupinella e ginestrino. In tarda estate, si assiste ad una presenza maggiore di fioriture di edera e asparago selvatico. Tutto questo si traduce nella produzione di un millefiori di montagna dai profumi e dai sentori particolari e caratteristici: delicati e floreali in primavera, più decisi nei mieli tardivi.
Il Presidio nasce con l’obiettivo di preservare e incrementare la produzione dei mieli particolari dell’Appennino abruzzese andando ad identificare e caratterizzare area per area, i mieli prodotti a quote superiori a 850 metri sul livello del mare sul territorio di parchi naturali e aree protette.
Mantenere attiva questa tradizione significa tutelare la biodiversità dei pascoli montani e riconoscere agli apicoltori e alle api un ruolo importantissimo nella salvaguardia della biodiversità floreale e vegetale.
2 – Salsiccia e soppressata del Vallo di Diano, Campania
La tradizione norcina nel Vallo di Diano è attestata da secoli e affonda le sue radici nelle attività agricole dell’area, da sempre dedite all’allevamento e alla pastorizia.
In un documento del comune di Diano (l’odierno Teggiano), risalente all’epoca medievale e che riguarda la vendita dei commestibili, si attesta che soppressate e salsicce ben confezionate, si vendono, in quantità di un rotolo (circa un chilogrammo) e al prezzo stabilito dai Catapani (delegati comunali addetti al controllo delle vendite in piazza).
Il territorio agricolo, completamente circondato da catene montuose, si colloca a un’altitudine di alta collina, questo clima svolge un ruolo importante ai fini della determinazione delle caratteristiche qualitative dei due salumi, influendo positivamente sulla stagionatura del prodotto.
La caratteristica di salsiccia e soppressata è poi la laboriosa selezione e lavorazione della carni che avviene manualmente tagliando a punta di coltello le parti magre e grasse da insaccare: spalla, pancetta, lombo e prosciutto per la salsiccia e pari magre e lardo del dorso per la soppressata.
Dopo l’asciugatura e una stagionatura successiva di 30-40 giorni, l’eventuale conservazione del prodotto avviene tradizionalmente sotto olio o sotto grasso, in barattoli di vetro o terracotta.
I salumi vengono prodotti tutto l’anno ad eccezione dei periodi più caldi in estate La laboriosa lavorazione a mano operata dai norcini più esperti rende questo prodotto ormai sempre più raro da reperire anche sul territorio. La situazione è resa ancora più difficile dalla scomparsa progressiva degli allevamenti nella zona.
Il Presidio riunisce alcuni norcini ed aziende agricole che continuano a produrre salsicce e soppressate secondo tradizione, con carni suine provenienti da allevamenti locali che utilizzano come alimento i prodotti agricoli dell’area per almeno il 60% e che non somministrano Ogm. L’obiettivo è valorizzare la realtà agricola locale attraverso queste produzioni e rilanciare una economia locale legata alla filiera suina.
3 – Grano Marzellina, Campania
La marzellina, detta anche verminia, è una varietà di grano duro a semina primaverile storicamente coltivata nelle montagne dell’appennino campano.
Nei campi posti tra i 700 e gli 800 metri la marzellina aveva una resa maggiore rispetto ai grani a semina autunnale a cui spesso veniva preferita. Inoltre, laddove il cattivo tempo impediva le semine autunnali, la marzellina rappresentava una soluzione di soccorso primaverile.
Nella campagna di San Bartolomeo in Galdo, un tempo considerata il centro principale di produzione della marzellina, sino ai primi del ‘900 gli agricoltori destinavano alla sua coltivazione circa un terzo della superficie a grano, cioè un migliaio di ettari.
Rustica, con un’ottima resa e buona resistenza all’allettamento, la pianta presenta un apparato radicale forte e ben sviluppato, paglia bianca e corta, spiga compatta e fortemente aristata, seme lungo e acuminato.
La farina che se ne ricava è adatta alla produzione di pasta essiccata. Spesso è mescolata a farine di altri frumenti poiché da sola tende a far assumere una colorazione scura alla pasta.
Anche nella panificazione si miscela con farine di grani teneri. Il pane che se ne ottiene ha una crosta colore ambrato scuro, mentre la mollica ha una tonalità intensa di grigio; i profumi di tostato, mandorla e malto si combinano con un gusto dolce, sapido intenso e lungo. Anche la pasta esprime profumi articolati e gusto intenso e lungo.
Scalzata nel corso degli anni da varietà “moderne” più produttive, ma che richiedono un massiccio utilizzo di concimi e diserbanti chimici, la marzellina si è salvata dall’oblio ed è arrivata ai giorni nostri grazie al lavoro dei pochi agricoltori che hanno continuato a scommettere su questa varietà.
Un paradosso, considerato che la scarsa necessità di interventi in campo e la maggiore adattabilità alle condizioni ambientali in cui si sono evolute, fanno dei grani tradizionali come la marzellina uno strumento strategico nelle mani degli agricoltori.
Sono solo cinque gli agricoltori che ancora oggi continuano a seminare la marzellina in pochi ettari. L’area di produzione è l’Appennino campano delle province di Benevento ed Avellino, a un’altitudine superiore ai 500 metri
4 – Sedano di Gesualdo, Campania
Chiamato “accio” in dialetto, il sedano di Gesualdo è una varietà locale che si coltiva nei pressi dell’omonimo paesino irpino, sulla dorsale tra la valle dell’Ufita e del Calore.
Grazie alla costante esposizione al sole dei terreni, questo sedano ha coste di un colore verde acceso. Anche il ciuffo è verde, mentre il gambo è più chiaro, quasi bianco. Quest’ultimo è pieno, tondeggiante, con un diametro piccolo, che varia dai 3 ai 6 cm. A
maturazione, la pianta raggiunge un’altezza che va dai 70 ai 100 cm. La tradizione agricola di Gesualdo ha radici antichissime perché il territorio è ricco di acqua e terreni fertili. Gli agricoltori della zona – da sempre specializzati nell’orticoltura – sono soprannominati “menestrari” (verdurai).
Una tradizione rimasta solida fino al terremoto del 1980, quando una cinquantina di famiglie era dedita alla coltivazione di ortaggi che poi vendeva nei mercati rionali e in alcuni paesi limitrofi. Oggi il numero di famiglie si è drasticamente ridotto.
L’”accio” di Gesualdo si semina a metà gennaio e, dopo circa tre settimane, cominciano a spuntare i primi germogli . Verso la fine di aprile si trapiantano le piantine in pieno campo e si gestiscono con tecniche a basso impatto ambientale: sono previste rotazioni triennali con leguminose, foraggere e cereali, per l’eliminazione delle erbe infestanti non si diserba chimicamente, ma si ricorre a mezzi meccanici o a scerbature manuali, le concimazioni si effettuano con fertilizzanti organici, e, per la difesa, si adottano come minimo i criteri previsti dal disciplinare di produzione integrata redatto dalla Regione Campania, ma di preferenza si ricorre a metodi di lotta biologica e a principi attivi di origine naturale. In ogni caso, si tratta di una pianta rustica e vigorosa, che difficilmente è attaccata da funghi e parassiti.
La raccolta avviene tra giugno e luglio; poi si selezionano le piante migliori e le si lasciano sui campi fino alla spigatura per la produzione del seme, così da garantire la produzione di piantine per la stagione successiva. Una volta raccolto è usanza comune sciacquare i sedani nelle conche di marmo in modo tale che l’acqua fresca mantenga il colore verde.
Il sapore di questa antica varietà di sedano è dolce, per questo è ottimo in pinzimonio o in insalata. In passato si usava anche per decotti e tisane per via delle proprietà diuretiche e depurative.
Il sedano di Gesualdo è a rischio estinzione a causa della sua sostituzione con varietà moderne più produttive, e per via dell’abbandono dei terreni orticoli. Il continuo calo del numero di ortolani negli anni è stato un segnale chiaro della necessità di un’iniziativa forte. Il Presidio slow food è nato dopo un percorso di ricerca e di coinvolgimento degli agricoltori di Gesualdo ma anche di tutta la comunità del paese irpino, compresi i cuochi locali, veri ambasciatori di questo nobile ortaggio, che stanno svolgendo un importante lavoro di valorizzazione. L’obiettivo è di evitare la scomparsa di questa varietà tradizionale, coinvolgendo le nuove generazioni, affinché siano stimolate a impegnarsi in agricoltura, riappropriandosi di un patrimonio di biodiversità conservato e condiviso da tutta la comunità.
5 – Lupino di Anterivo, Trentino Alto Adige
Tra i surrogati del caffè della tradizione contadina merita sicuramente una citazione quello ottenuto dal lupino (Lupinus Pilosus) di Anterivo: una località montana incorniciata da piccoli orti incastonati in ampi prati verdi, nella Val di Fiemme, all’interno del parco naturale del Monte Corno.
Il lupino coltivato ad Anterivo è una leguminosa annuale con fusto eretto, che può raggiungere i 120 cm. La ramificazione laterale è accentuata, le foglie sono digitate e ciascuna è composta da 9-12 foglioline setose e villose su entrambe le pagine. I meravigliosi fiori blu, punteggiati da macchioline giallo-bianche e sporadicamente anche rosa, sono riuniti in grappoli e, durante il periodo della loro massima fioritura, trasformano i campi in una caratteristica distesa color blu. I baccelli, ricoperti da una morbida peluria, contengono 2-4 semi piuttosto voluminosi, compressi, dalla superficie ruvida di colore screziato tra il marrone chiaro e il marrone scuro.
I semi, raccolti in luglio e agosto, vengono messi ad essiccare al sole e poi tostati e macinati fino a formare un’invitante polvere dal profumo di nocciola tostata e cacao. Dopo l’infusione in acqua bollente per 5-8 minuti si ottiene una bevanda scura, profumata, dal gusto piacevole, delicatamente amarognolo e acidulo.
Il “caffè di Anterivo” (“Altreier kaffee” in tedesco) è parte integrante della memoria collettiva degli abitanti del paese e ha una tradizione più che centenaria. Insieme a patate, cavoli cappucci, erbe e piante officinali, questa varietà di lupino è da sempre presente negli orti contadini di Anterivo.
Il più antico documento che cita la coltivazione risale al 1887. Si tratta della biografia del principe vescovo Johann Baptist Zwerger, che nacque ad Anterivo e svolse il suo ministero episcopale a Graz-Seckau, in Austria. Nelle sue memorie scrive che questa leguminosa, nota nella zona come “caffè di Anterivo”, permetteva “persino ai più poveri di realizzare un piccolo guadagno”. La polvere, essendo leggera, era infatti trasportata facilmente dalle donne che giungevano a piedi nelle aree vicine della Bassa Atesina, del Cavalese e di Capriana per commercializzarla e quindi ottenere un’integrazione al reddito. L’infuso si consumava principalmente a livello famigliare, ma, essendo conosciuto anche per la proprietà di lenire problemi di digestione, era somministrato persino al bestiame.
Oggi è usato non solo come bevanda, ma anche in cucina per aromatizzare piatti di carne e per la preparazione di alcuni trasformati: grappa, birra, cioccolato, gelati e altri dolci.
Il lupino si raccoglie tra luglio e agosto. Il prodotto derivato dalla sua tostatura e macinatura e i relativi trasformati sono reperibili tutto l’anno.
La coltivazione del lupino ad Anterivo era molto diffusa fino agli anni ’60, ma con la maggior disponibilità e accessibilità del caffè, l’impiego quotidiano del suo infuso è andato scemando fino a scomparire quasi completamente.
Alcune contadine del paese hanno continuato a coltivare con dedizione questa varietà nei propri giardini, conservando la semente fino ai giorni nostri. Nei primi anni duemila è nato un progetto di recupero, grazie al lavoro di ricerca del “centro di sperimentazione Agraria Laimburg” e all’impegno di un gruppo di contadini di Anterivo che si è riunito in associazione per produrre il “caffè” da lupini coltivati – senza l’uso di prodotti chimici – nei piccoli orti dal terreno acido e sabbioso. La loro attività è sostenuta dalla promozione e dalla commercializzazione della Famiglia Cooperativa di Cavalese.
6 – Monte Veronese Dop d’allevo, Veneto
La regione montuosa della Lessinia, a nord di Verona, nel Duecento era una grande riserva disabitata, dove gli abitanti dei paesi vicini portavano a pascolare pecore e capre.
Il 5 febbraio 1287 il Vescovo di Verona Bartolomeo della Scala concesse a un gruppo di Cimbri, proveniente dall’Altopiano di Asiago, la possibilità di stanziarsi nel territorio adatto al pascolo: i Lessini sono esposti a mezzogiorno, non hanno grandi pendenze e hanno manti erbosi con un lungo periodo vegetativo che consentono un periodo d’alpeggio più lungo del consueto.
I Cimbri erano dediti principalmente all’allevamento del bestiame e conoscevano benissimo le tecniche per produrre il formaggio, è naturale quindi che si sia sviluppata una tradizione casearia legata alla produzione di formaggi vaccini, quasi sempre ottenuti caseificando il latte che aveva già subito una prima scrematura destinata alla produzione del burro. Il termine “monte” fa probabilmente riferimento alla tecnica di produzione, in cui il latte che veniva cagliato proveniva da più mungiture: con la denominazione “Monte Veronese”, la produzione locale ha ottenuto la Dop nel 1996.
La denominazione è stata concessa per due tipologie: a latte intero e d’allevo, entrambi a pasta semicotta. Il formaggio a latte intero è consumato più fresco. Quello d’allevo, invece, è prodotto con latte parzialmente scremato. La stagionatura si protrae per un minimo di 90 giorni, se il formaggio è usato da tavola, e per un minimo di 6 mesi (che possono arrivare anche a 2 anni nello stravecchio) se il formaggio è utilizzato da grattugia. Il peso medio della forma varia da 6 a 9 chili. Il Monte Veronese del Presidio ha una grande attitudine alla stagionatura prolungata, un formaggio adatto a essere consumato a fine pasto.
Fino a pochi anni fa la produzione di Monte Veronese realizzata con il latte di malga non è stata particolarmente valorizzata. Ancora alcuni decenni fa si contavano oltre cento malghe sui Monti Lessini. Oggi sono case per vacanze oppure alpeggi per bovini da carne.
Il latte prodotto dalle vacche che pascolano in malga veniva portato nei caseifici a valle e qui, spesso, era miscelato con il latte munto in stalla. Se non si valorizza la produzione d’alpeggio si perde non solo un formaggio di alta qualità ma, poco alla volta, le malghe della montagna veronese, mettendo a repentaglio l’ecosistema.
Un Presidio slow food ha riunito i caseifici e le malghe disponibili a produrre Monte Veronese d’allevo con latte d’alpeggio, distinguibili dalle altre grazie a un marchio (la “M” di malga) apposto a fuoco sullo scalzo della forma, accanto a quello della Dop.
7 – Mosciarella delle casette di Capranica Prenestina, Lazio
Capranica Prenestina è un piccolo borgo aggrappato ai Monti Prenestini, circondato da boschi e castagneti plurisecolari.
Citata già da Catone nel suo “De agri cultura”, la castagna dei Monti Prenestini ha svolto per secoli un ruolo molto importante nell’alimentazione delle genti del posto. La prima forte spinta alla coltivazione vera e propria del castagno risale all’epoca medievale, grazie all’impulso dato dalla contessa Matilde di Canossa. Gli Statuti dei due comuni ove ricade l’area di produzione (redatti in epoche diverse, i primi sono del 1200) dimostrano come il castagno fosse tenuto in grande considerazione: l’uso dei castagneti (per i frutti e la legna) era regolamentato con attenzione ed erano previste sanzioni per i responsabili di furti o danni.
La selva castanicola si estende lungo il versante nord-est dei Monti Prenestini, quello più “freddo”, ed è distribuita tra gli 420 e i 700 metri s.l.m. Il terreno è di natura calcarea, argilloso negli strati superficiali: sono queste le cosiddette terre rosse dove storicamente hanno trovato dimora i castagni.
I frutti sono piccoli e hanno forma allungata, apice appuntito e colore scuro con tonalità più chiare verso l’ilo, che è di piccole dimensioni. Il sapore è dolce e la buccia sottile interna si toglie facilmente.
Nel territorio di Capranica Prenestina, per conservare le castagne, è molto diffusa e consolidata la pratica dell’essiccazione: un procedimento lungo, da cui si ottengono le cosiddette “mosciarelle”. L’asciugatura avviene nelle “casette”, piccoli locali in pietra che si trovano nei boschi. Si tratta di due stanzette sovrapposte, con muri in pietra a secco e tetto costituito da una struttura lignea ricoperta di coppi in laterizio. Il pavimento è fatto di lastre di pietra calcarea e, tra pavimento e soffitto, a un’altezza di circa 2 metri, si sistema una grata (“arate”), formata da cannucce e appoggiata su traverse.
Dopo la raccolta, che avviene a partire da ottobre fino a dicembre, le castagne sono distribuite sul pavimento a graticcio (sul piano superiore delle casette) fino a formare uno strato uniforme di circa 70 centimetri e, quindi, sono sottoposte all’affumicatura per circa un mese. Il fumo si sviluppa bruciando le ramaglie della potatura dei castagni e la “spulla” (resti delle bucce di castagne dell’anno precedente). Il calore e il fumo raggiungono le castagne, le disidratano, svolgendo anche una funzione antisettica, e donano ai frutti un delicato aroma di affumicato. Al termine le castagne sono spinte all’esterno attraverso un foro alla base dei graticci e sottoposte alla battitura, ossia la separazione del frutto dalla buccia secca.
Nella tradizione locale si mangiano lessate in acqua o latte oppure nelle zuppe di legumi o di maiale alle quali conferiscono una delicata dolcezza e una lieve nota di affumicato. La mosciarella può anche essere macinata per ottenere la farina, ingrediente di dolci e vari tipi di pasta. Le mosciarelle essiccano nei mesi da ottobre a dicembre e sono disponibili per il consumo tutto l’anno
Negli ultimi decenni, come in tanti altri piccoli borghi appenninici, il forte spopolamento ha portato all’abbandono delle case e dei terreni di Capranica Prenestina.
Molti castanicoltori hanno cessato l’attività e sono andati a vivere altrove. Il valore naturalistico e paesaggistico di questo territorio è il frutto dell’equilibrio tra dinamiche naturali del bosco e di una sua attenta gestione che, nonostante lo spopolamento, non è mai del tutto cessata. Nel 2011 è iniziato un percorso di recupero, accompagnato dal riconoscimento regionale dei 166 ettari del Castagneto Prenestino quale Monumento Naturale. Grazie ad alcuni castanicoltori, che hanno conservato i saperi legati alla gestione del castagno (potatura, pulitura del sottobosco, innesti e pratica dell’essiccazione nelle casette) è stato possibile avviare un Presidio che vede l’impegno di una comunità di produttori, cuochi, enti pubblici e abitanti del luogo. Un mulino locale macina le castagne per ottenere la farina e, a breve, si inizierà a produrre una birra per recuperare gli scarti della vagliatura. Il Presidio slow food si propone inoltre di continuare nell’attività di conservazione di un paesaggio unico – che nel 2021 ha ottenuto una Menzione all’interno del Premio Nazionale del Paesaggio – portando avanti il censimento dei castagni monumentali e la conservazione dell’ecosistema del castagneto. Vuole inoltre favorire lo sviluppo di un turismo sostenibile, interessato a scoprire i sentieri ripristinati nei castagneti, le specialità a base di castagna e la cucina locale caratterizzata dall’impiego di questo frutto in varie forme.
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