Inauguriamo questa nuova rubrica che ci porta “in giro per il mondo” a scoprire le nazioni del mondo attraverso il suo cibo e il suo ambiente, il suo popolo.
Due elementi strettamente legati perché conoscere i prodotti e i piatti di un paese è il primo approccio culturale con un popolo mentre invece conoscere il suo ambiente ci fa comprendere ancora di più le biodiversità e cosa si è perso o conservato.

Brasile
Iniziamo il nostro viaggio con il più grande paese dell’America del Sud con il nome che deriva da un albero di cui erano ricche le sue coste, quel Pau Brasil che veniva tagliato per dare origine al colorante “Rosso brace” il cui commercio spopolò nel XVI secolo al punto che i commercianti iniziarono a chiamare questo paese con questo nome anziché con quello con cui i portoghesi lo avevano battezzato, ovvero Terra di Santa Cruz.
La bandiera è una delle più famose, conosciute e riconoscibili del mondo, forse a causa del calcio, ma pochissimi conoscono il suo significato.
Il verde rappresenta la grande abbondanza di foreste del paese, il rombo giallo la sua ricchezza in minerali mentre il cerchio blu con le stelle rappresenta il cielo sopra a Rio de Janeiro la notte del 15 novembre 1889, data in cui il Brasile è diventato repubblica.
Qui sono sbarcati la maggioranza degli schiavi africani vittime della tratta per lavorare nelle piantagioni come ci ha accennato la nostra amica (che di seguito intervistiamo) e si stima che siano stati oltre quattro milioni; il 45% di tutti i deportati dall’Africa.
Siamo nel Paese dove il sesso è parte integrante del quotidiano e il cambio dello stesso libero; dove si cerca d’imporre la cultura per legge – curioso in particolare che tra i carcerati per ogni libro che viene letto la pena venga abbassata di due mesi – e dove farsi le lampade solari è vietato anche perché in Brasile il sole non manca!

Dramma green dopo il ciclone Bolsonaro
Un paese green dove il 92% delle nuove auto prodotte utilizza l’etanolo come carburante (un prodotto dalla canna da zucchero) dove è la maggiore porzione della foresta amazzonica, polmone verde del pianeta che ospita la più grande varietà di specie animali, di piante, di pesci d’acqua dolce e di uccelli oltre a detenere il record del maggior numero di specie di scimmie al mondo è messo a serio rischio.
Ma com’è davvero la salute del polmone verde del mondo?
Drammatica e non solo dopo il ciclone Bolsonaro che fin dal programma elettorale aveva dichiarato chiaro e tondo di voler mettere la pietra tombale alla tutela della foresta indebolendo il Ministero dell’Ambiente e ponendo il Dipartimento agli Affari Indigeni alla “dipendenza” del Ministro dell’Agricoltura che è per l’80% la causa della deforestazione in conseguenza dei grandi latifondi coltivati a soia e gli immensi allevamenti di bovini per produzione di carne.
Praticamente in mano alle aziende agricole che chiedono spazio infischiandosene di radere al suolo la foresta pluviale, i diritti dei popoli nativi (sanciti peraltro da 2 articoli della Nuova Costituzione Brasiliana del 1988), la loro sopravvivenza, l’integrità del loro habitat e il loro sacrosanto diritto di vivere dei prodotti della foresta lontani dalla civiltà.
Il Brasile è anche da anni vittima dei crimini ambientali causati dall’estrazione mineraria selvaggia.
Mariana nel 2015 e Brumadinho nel 2019 sono due tragedie gemelle. La rottura di due dighe e la conseguente inondazione di fanghi tossici contaminati da piombo, arsenico e mercurio che hanno causato la perdita di vite umane, animali e piante.
Due tragedie che si potevano evitare se l’estrazione di oro, rame, molibdeno, bauxite e diamanti valessero meno della vita dei popoli indigeni che da 500 anni subiscono violenze e massacri solo per voler difendere il loro modo di vivere ancestrale.
Erano 3 milioni quando sono arrivati i Conquistadores e ora sono solo 800 mila divisi a loro volta in 305 diverse etnie.
Fra loro si custodiscono oltre 270 idiomi locali precedenti l’avvento del portoghese e sono stati registrati circa 70 casi di tribù isolate che non sono mai entrate in contatto con l’uomo contemporaneo e che vivono in una condizione simile a quella degli indigeni incontrati dai conquistadores.
Eppure nella corsa ai dollari sporchi di fango tossico e sangue le dighe si rompono senza piani di evacuazione, sirene e barriere. Ma la cosa peggiore è che si sapeva che si sarebbero rotte, che si sapeva che erano il pattume degli scarti minerari, che la magistratura chiude spesso più di un occhio e che le compagnie minerarie sono le principali finanziatrici delle campagne elettorali presidenziali.

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Rio de Janeiro, il sogno di tanti europei
In Brasile è stata per alcuni anni anche la capitale di uno stato europeo: il Portogallo. Un destino curioso capitato a Rio de Janeiro quando nel 1808 a causa delle invasioni napoleoniche la famiglia reale scappo dal paese lusitano per rifugiarsi nella colonia.
A proposito di Rio, sogno di tanti europei – nonostante le oltre mille favelas – deve il suo nome così curioso e romantico (fiume di gennaio, anche se in realtà sono oltre duecento i fiumi della città!) all’esploratore portoghese Gaspar de Lemos che qui vi approdò, credendo che la sua baia fosse invece un fiume nel gennaio del 1502.
E Rio è la città del maestoso Cristo Redentore eletto fra le sette meraviglie del mondo, della baia di Guanabara così grande da toccare quindici città, avere oltre cinquantatré spiagge fra cui la leggendaria Capocabana, oltre cento isole e la foresta urbana più grande del mondo.

Una cucina dall’origine afro-portoghese
Entrando in cucina l’influenza portoghese così come quella africana si fanno sentire molto e rendono quella brasiliana una cucina molto diversa dalle altre dell’America latina.
Alla base tanto pesce mescolato con ciò che in loco si trovava: frutti selvatici, patate e arachidi. Poi arrivarono gli schiavi dall’Africa a lavorare nelle piantagioni di zucchero e caffè e con loro nuove influenze culinarie.
Oggi la cucina brasiliana è suddivisibile in macro aree.
La cucina del nord, con tanti fagioli, riso bianco e manioca; quella della costa sempre a nord, dominata dal pesce abbondantissimo che porta in tavola caranguejo, granchio, gamberetti e nella zona di Salvador de Bahia il moqueca. Tutti piatti poveri ma sostanziosi.
Un discorso a parte lo meritano i pesci amazzonici e l’abbondanza di frutta esotica a noi sconosciuta (açai, cupuaçu, gaviola, bacuri e castagne).
Nel Brasile centrale si mangia oltre al pesce molta carne di maiale cucinata in ricette a base di soia, riso, mais e manioca; ad est abbonda anche l’uso dei formaggi locali mentre al sud forte è l’influenza dei gauchos e della cucina argentina con tanto arrosto fra cui il mitico churrasco.
Da non perdere l’ottima birra locale, le gustose bibite a base di frutta e il sorprendente vino. Ebbene sì, che ci crediate o no il Brasile ha un grande patrimonio vinicolo che lo colloca al sedicesimo posto nella scala vitivinicola mondiale con circa 3,6 milioni di ettolitri prodotti in vino e succhi d’uva.

Il racconto di Sonia
Sonia è una mia vecchia conoscenza di quasi una trentina d’anni. Sempre incrociata e salutata, talvolta di sfuggita per le vie di Firenze, con il suo passo veloce e le sue borse vivaci.
Con un passato da hostess, da impiegata in agenzie di viaggio e oggi tuttora presente con passione all’accoglienza turistica di Firenze, città che ama e che cerca sempre di far brillare agli occhi dei tanti turisti che ogni giorno passano davanti al suo desk.
E’ carioca nell’animo nonostante si senta molto fiorentina e lo è non solo nelle sue borse multicolor ma nel suo accento curiosissimo: giusto mix fra brasilero e fiorentino stretto.
Ci scruta curiosa con quell’aria da eterna bambina che spunta sotto i capelli sempre arruffati e gli occhiali da miope che non riescono a nascondere quegli occhi sempre sorridenti da indios di città.
Volete sapere del mio Brasile? – esordisce sorridendo – Bene, sappiate che ogni brasiliano ha fra i suoi antenati almeno un negro e una puttana!
Eh sì, in Brasile di nativi ce n’erano pochi rispetto ad altri paesi latini e il territorio era immenso così i portoghesi, oltre agli schiavi dall’Africa, decisero di portare nelle terre nuove anche le prostitute lusitane per darle un futuro.
Volete sapere come sono arrivata in Italia?
Sorride. Il mio arrivo è stato avventuroso. Ero una ragazzina un po’ ribelle e sono arrivata perché sono scappata dal Brasile.
Ero venuta in Europa in gita per quindici giorni con la scuola e avevo un appuntamento clandestino con un amore epistolare d’Israele a Parigi, città che era l’ultima tappa di quel viaggio in Europa.
Avevo diciassette anni e a Parigi quell’amore non c’era all’appuntamento.
Quella delusione però durò pochissimo perché nel frattempo mi ero innamorata del continente e di Londra soprattutto.
Così sono scappata e anziché presentarmi all’imbarco per il Brasile ho fatto l’autostop e sono tornata a Londra perché mi volevo specializzare in inglese.
A casa mia è successo un finimondo anche perché per la legge brasiliana ero minorenne. Ma a Londra sono rimasta per due anni e mezzo in cui ho fatto di tutto, in tutti i sensi…
Mi sono specializzata in inglese, ma per potermelo permettere ho fatto anche la cameriera negli alberghi, l’addetta alle pulizie al Parlamento.
Ma mi sono anche divertita vedendo i concerti di Jimi Hendrix e Janis Joplin ed ero pronta anche partire per l’isola di Whight.
Ho vissuto anche in una comune per alcuni mesi ed è lì che mi ha trovato mia madre che si era imbarcata su un aereo nella certezza di riportarmi a casa, ma non ha potuto fare niente perché per la legge inglese ero ormai maggiorenne. Così lei ha deciso di rimanere con me almeno per sei mesi.
Abitavamo in un bed & breakfast dove in cambio dell’alloggio gratuito facevamo entrambe tutti i lavori possibili.
E’ stato incredibile vedere la forza di quella donna che in vita sua non era mai entrata in cucina. Lei di famiglia bene, abituata ad avere servitù in guanti bianchi a servirla che ramazzava pur di stare con me.
A Londra ho vissuto per due anni e mezzo intensissimi e poi, ai miei diciannove, ho scoperto di essere incinta di un ragazzo italiano che avevo conosciuto a Firenze alla discoteca da turisti più famosa in città e che da tempo faceva il pendolare d’amore fra Firenze e Londra.
E così sono arrivata a Firenze, anzi al Galluzzo in una famiglia di contadini.
A malincuore perché amavo Londra e la sua vita e mai avrei sognato di ritrovarmi a fare la mamma.
A Firenze sono sbarcata incinta, impreparata, smarrita e con lunghi capelli colorati come si conveniva ad una vera hippy. Ero un extraterrestre tutti mi guardavano e mi indicavano.
Ero anche sola peraltro, perché il mio compagno era dovuto partire per il militare anche se lasciava a casa una ragazza col pancione che non capiva una parola d’italiano, in una casa di campagna fredda e modesta.
Per me che venivo dal lusso dei brasiliani ricchi e nonostante il vissuto a Londra fu uno choc.
I suoceri che mi osservavano e mi accettavano solo per il nipotino e poi il cibo italiano… Un disastro!
Ero un amante del cibo spazzatura da sempre tant’è che in Brasile alla scuola americana scambiavo sempre la mia merenda “sana” con quelle dei miei compagni yankee che abbondavano di patatine e altre amenità.
A Londra poi ero vissuta solo con questo tipo di alimentazione e ora mi ritrovavo in Italia, all’inizio degli anni Settanta in una famiglia tradizionale di campagna dove sono passata in breve dalle porcherie alla meravigliosa cucina toscana.
Ricordo come oggi il freddo di quelle stanze con le stallattiti e le stallagmiti che colavano d’inverno, ma ricordo anche la grande cucina a legna e il focolare sempre acceso.
Ottima quella cucina. Troppo buona e così ho iniziato a mangiare e mangiare innamorandomi anche del vino che prima non sopportavo.
Ma soprattutto ho scoperto presto che in Italia se non si mangia di cibo se ne parla. Sempre! Al mattino è uno dei primi argomenti e poi, nel corso della giornata spesso, in tanti discorsi.
Se dovessi dire che mi manca la cucina del mio paese blufferei anche perché oggi la cucina etnica è ovunque e permette anche se in maniera edulcorata di assaporare tutto il mondo.
Gli unici sapori che mi mancano, che però mi faccio sempre portare dalle mie cugine quando vengono a trovarmi, sono quelli dell’infanzia: le caramelle di cocco, il paçoca (dolcetto fatto di noccioline) e i bomboloni bassi e tondi pieni di crema.
Sono però una cattiva cultrice di arte culinaria. Forse perché ho un brutto ricordo del cibo da bambina.
Ero anemica e mia mamma per curarmi mi costringeva a mangiare da un grosso barattolo di latta, ricordo come fosse ieri, una sbobba incredibile dove aveva messo a bollire della carne mescolata con un uovo.
Sono anche peraltro abituata a mangiare tutto insieme in un piatto unico (riso, fagioli neri, carne, verdura e abbondante cipolla) e in questo non sono migliorata nemmeno crescendo o stando in Italia!
Ho sempre fatto lavori che mi lasciavano poco tempo per cucinare, ma forse questa è solo una scusa, la verità è che sono abituata a comprare cibo scongelato e riscaldarlo al microonde.
Forse perché, inconsciamente, ho seguito i consigli di mia madre che mi diceva che la cucina è un inferno dove se entri dentro diventi schiava.
Del resto anche se abito qui ormai da molti anni in questo mi sento ancora brasiliana al punto da non comprendere il rito italiano di mangiare insieme, soprattutto la domenica.
Sono una che mangia quando ha fame…
Da noi tutt’al più si sta insieme nei grandi cortili, magari nel periodo del Carnevale quando si mangia il churrasco accompagnato da un sacco di frittini e salamini con annaffiate abbondanti di birra. E si esagera… ballando samba fino a notte fonda.

La ricetta: feijoada
ingredienti:
fagioli neri
salsiccia
costine di maiale
pancetta
alloro
aglio
cipolla
riso
olio extra vergine d’oliva
prezzemolo
sale e pepe
preparazione:
Mettete i fagioli a bagno per una notte intera con molta acqua, l’alloro e altrettanti pezzi di maiale.
L’indomani fate bollire per mezz’ora i pezzi del maiale e dopo averli scolati, metteteli in una pentola con i fagioli e la salsiccia fatta a pezzetti.
Coprite con acqua, aggiustate di sale e pepe e fate cuocere per due ore circa a fuoco lento avendo cura di rigirare di tanto in tanto. Adesso aggiungete anche le costine del maiale.
A parte mettete a soffriggere in olio extra vergine d’oliva la cipolla con l’aglio la pancetta e un po’ di brodo dei fagioli e versate poi insieme nella zuppiera con gli altri ingredienti e lasciate cuocere fino a quando la feijoada non risulterà densa e con le carni ben cotte.
Servite in terrine di coccia con salsa cruda di cipolla, prezzemolo, aglio e pomodorini (se poi volete farla proprio alla carioca sostituite con banana e arancia).
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