di Barbara Tedde – Il fascino di Siena in una giornata di sole già di per sé è un nutrimento dell’anima. Una passeggiata di prima mattina, con i negozi ancora chiusi, costringe a camminare con il naso all’insù, con gli occhi volti ad ammirare scorci di palazzi e finestre dai vetri antichi.
Il Wine&Siena è la meta da raggiungere, nel prestigioso complesso museale di Santa Maria della Scala, proprio di fronte al Duomo.
Un appuntamento che giunge alla nona edizione, firmato The WineHunter Helmut Kocher, che ha accuratamente selezionato per questa edizione 2024 100 aziende enogastronomiche italiane.
Tre giorni all’insegna del made in Italy, ricca di eventi e soprattutto di masterclass, tanto che in una giornata non è stato possibile soddisfare tutte le dovute curiosità.
Ma ci sono scelte da fare – come nella vita, del resto – soprattutto quando si ha poco tempo a disposizione. Quest’anno le Master Class – che si sono svolte presso il meraviglioso palazzo storico del Grand Hotel Continental a circa 600 metri da Santa Maria della Scala– hanno avuto la meglio rispetto ai banchi di assaggio.
Partecipare solo a due è stato davvero un peccato perché tutte erano una ghiottoneria per ogni appassionato e, sebbene l’acustica in sala fosse un po’ invalidante, l’attenzione del pubblico è stata encomiabile.
La prima masterclass su San Martino della Battaglia non si scorda mai
“C’era una volta il Tocai… il vino che cambia nome ma non perde la sua identità”. Il tocai è un vitigno dalle peculiarità incredibili, i vini prodotti spesso sono eleganti, delicati, quasi sussurrati e non meritavano certo una guerra sul nome, così dibattuta e finita in maniera non troppo felice per la parte italiana.
Pensare di cambiar nome non è stata una scelta facile,
soprattutto per chi in Veneto ed in Friuli ci è nato e lo ha sempre chiamato Tocai.
Ma le sentenze parlano chiaro, l’Ungheria è l’unico paese al mondo a detenere il nome e dal 2007, dopo anni di pratiche forensi, l’Italia perde la causa, ed ogni regione produttrice si è trovata a produrre tocai sotto mentite spoglie.
In Friuli si è convertito in Friulano – nome probabilmente non dotato di un sufficiente appeal, tanto da portare ad un calo di vendite del 70% – mentre in Veneto è stato chiamato Tai.
Pochi sanno che anche in Lombardia – in provincia di Brescia – esiste il vitigno da epoche remote, anch’esso terra dell’Impero Austro Ungarico che fu.
Il Tocai – che in Ungherese significa “qui” – fu proprio impiantato durante la Monarchia asburgica, il cui confine arrivava fino alla provincia di Brescia.
Ce lo spiega bene Luca Formentini dell’azienda Podere Selva Capuzza a San Martino della Battaglia.
I produttori della zona Doc San Martino della Battaglia dal 2007, dovendo abbandonare il nome Tocai, si sono trovati un gran punto interrogativo, chiamandolo fra di loro in dialetto, il Tuchì – tocco leggero – oggi diventato ufficialmente il nome anche nel disciplinare.
San Martino della Battaglia Doc è una dominazione con piccolo raggio di azione, una nicchia che nell’Ottocento ebbe massimi splendori. Negli anni Ottanta del Novecento la crisi enologica investe il Paese, un crollo della denominazione che vede la rinascita solo nel 2003 con il coraggio di Podere
Selva Capuzza che, per mano di Luca Formentini, reimpianta Tuchì e Lugana.
La verticale di San Martino della Battaglia DOC è stata sorprendente, dalla 2018 alla 2003 Campo del Soglio del Podere Seva Capuzza hanno reso l’idea di cosa significhi un bianco longevo.
La 2018 si è caratterizzata per sentori agrumati e camomilla, morbidezza di sorso con finale sapido e coup de nez di erbe aromatiche. La 2015 per mineralità – sbuffi sulfurei -, morbidezza e finale speziato e sapido. Il Campo del Soglio 2013 dal colore dorato ha regalato al naso miele di acacia, rivelandosi morbido e avvolgente anche nel sorso. La 2006 – ultimo anno in cui si può usare il nome Tocai – ha il profumo di frutta secca, miele e pesca matura. La bocca è piena e appagata e termina con freschezza e sapidità.
La 2003 accenna un po’ di ossidazione, un’annata calda che ha mantenuto fin troppo fino ad oggi la sua speziatura e freschezza di bocca.
A sorpresa di tutti ogni vino dell’azienda è nato e vissuto solo in acciaio.
Seconda ed ultima masterclass della giornata
La masterclass “Arte in Anfora: segreti e meraviglie del vino nella storia verso il futuro” vede la conduzione di Halmuth Kocher, patron di The Winehunter.
Poche chiacchiere ma concrete, una degustazione con troppi assaggi per soffermarsi ad analisi gustolfattive che, in qualche caso, non necessitavano di molte parole.
Una breve premessa sull’anfora
Dal 2011 la ricerca per il vino naturale porta anche all’uso dell’anfora.
Una crescita esponenziale, seguita dalla parola sostenibilità, dove Gravner, virtuoso produttore di Oslavia, ne è stato il precursore, attraverso l’uso di antiche tecniche georgiane.
Negli ultimi 4/5 anni l’evoluzione del vino in anfora è salita alle stelle. Mentre in Georgia il regolamento sulla vinificazione in anfora è molto chiaro, in Italia la cultura su questo pregiato contenitore è un riferimento piuttosto generico, che andrebbe maggiormente specificato soprattutto per la grande differenza tra loro.
Vista la diversità dei contenitori – dette impropriamente anfore – potrebbe essere utile al consumatore avere maggiori dettagli in etichetta sulla tipologia usata (contenitori in terracotta, in cocciopesto, rivestiti in vetro oppure in cera), elementi importanti anche al fine di una giusta valutazione.
La Toscana è stata definita la zona migliore per la terra cotta a livello mondiale, soprattutto per qualità altamente pregiata. Le giare, prodotte da grandi aziende toscane, hanno richieste altissime in tutto il mondo. Un vero boom dopo i bui periodi in cui il mercato non richiedeva più manufatti in terra cotta.
La degustazione
Sono stati ben undici gli assaggi, di seguito quelli che più mi hanno colpito.
Blancjat 2020, L.E.A. bianco IGT Friuli Venezia Giulia. Una ribolla gialla del Friuli con fermentazione in anfora di 150 litri per un periodo di 6 mesi. Fermentazione sulle bucce, intensità di aromi ed eleganza, grande complessità, 13 gradi con spiccata nota alcolica, ma resta fresco ed elegante.
Radix 2018- Casale del giglio – IGT Lazio 100% bellone. Nonostante la semplicità del vitigno è un vino che sprigiona una bella energia, gradevole e fiero sebbene porti sulle spalle già sei anni.
Anfora – Castelvej – Langhe DOC – 100% Viognier – che nella zona del Roero esistesse il Viognier lo ignoravo, ma il produttore ha trovato nel vitigno elementi che potessero ben svilupparsi nell’anfora, contrariamente all’arneis che è un vitigno con minor corpo e struttura. Il sorso è ricco di frutta come la pesca gialla e mango, oltre che ananas matura. Bel corpo e tanta godibilità.
Backtosilence 2022 Ottella – 100% Lugana: penalizzato dalla temperatura di servizio elevata ha palesato comunque un sorso sapido e appetitoso. Sorso che invita a ripetersi.
Troccolone 2022 Marco Capitoni – Orcia Sangiovese Doc. Un lavoro iniziato da Capitoni nel 2010, usando Anfore dell’Impruneta, le più pregiate. Il Troccolone è un vino sincero e godibile, una pagina di storia della Val d’Orcia che si sviluppa nel calice. Fruttato e un po’ rude, i varietali sono vivi, un vino senza fronzoli e pertanto piacevolissimo. Del resto i suoi 8 mesi in anfora hanno sprigionato tutto il carattere del sangiovese della zona.
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