Polonia da scoprire, lontano dalle folle

Polonia da scoprire, lontano dalle folle

La Polonia vista dall’alto si presenta come una distesa verde, sopra la quale Vistola e Oder aprono le loro ali azzurre. Il cielo polacco, nel colore dei lapislazzuli, brilla di notte grazie alla polvere dorata delle stelle. Di giorno il cielo è illuminato da un sole giallo come i campi di colza…
Questa descrizione alquanto poetica del paesaggio naturale della Polonia prova a restituire la bellezza della natura di questo paese.


Biodiversità che non ti aspetti

La grande diversità di habitat naturali consente alla Polonia di ritrovarsi nelle posizioni di testa, tra i paesi europei, per quanto riguarda la conservazione della biodiversità.
C’è il mare con centinaia di chilometri di splendide spiagge, montagne con viste mozzafiato, fiumi con corsi tortuosi e numerose anse che scorrono lungo tutto il paese, vecchie secche, la flora e la fauna tipiche delle valli dei fiumi, migliaia di pittoreschi laghi e un ricco mosaico di ecosistemi di boschi, paludi e radure.
23 sono i Parchi Nazionali che si distinguono in quanto aree dai particolari valori naturalistici. Si tratta di ottimi posti dove poter passare un po’ del proprio tempo, in qualsiasi momento dell’anno.
Ma sapevate che in Polonia ci sono vulcani, bacini d’acqua colorati e un deserto?
Queste e altre particolarità possono essere trovate nel paese, in qualsiasi regione, e sono, per la maggior parte, opere di madre natura stessa.
Il periodo perfetto per vedere con i propri occhi queste peculiarità, evitando al contempo le folle di turisti, è la primavera e giust’appunto l’autunno.

Il Sahara polacco è il deserto nato due volte

Le dune mobili appartengono sicuramente a questi posti unici. Esse si trovano sotto la tutela del Parco Nazionale Slowinski, situato nella parte centrale della costa polacca, tra Leba e Rowy.
Si tratta della più grande area in Europa dove sono presenti le sabbie erranti – conta circa 500 ettari di superficie. Tutto questo territorio ricorda un deserto di sabbia.
Alcune dune continuano ancora a muoversi verso ponente, arrivando fino ad una velocità di 10 metri all’anno.
Le più altre tra queste raggiungono vette di qualche decina di metri, per esempio Lacka Gora che si issa per 42 metri sul livello del mare. Le creste e i passi sono coperti scarsamente di erba, mentre gli spazi lontani si inclinano leggermente verso il mare.
Alla sabbia è sicuramente legato il Deserto di Bledow – la più grande area in Polonia di sabbie mobili di derivazione fluvioglaciale che conta, all’incirca, 33 km2.
È situato a metà tra l’
Altopiano della Slesia e l’Altopiano di Olkusz ed è sotto la protezione del programma Natura 2000.
Il Sahara polacco si estende da Bledow ad ovest, fino al comune di Klucze ad est. Il confine nord è delimitato dal villaggio di Chechlo, mentre a sud da un grande terreno boschivo.
Nonostante non sia di dimensioni significative, il Deserto di Bledow è una grande attrazione naturale. Nel deserto sono stati documentati, ad esempio, dei fenomeni di fata morgana!
Il deserto è attraversato dal fiume Biala Przemsza. Come è possibile che ci sia un deserto in Polonia, paese con un clima sicuramente non desertico?
A quanto pare il diavolo, sorvolando Bledow, stava trasportando sottobraccio un sacco di sabbia che si è agganciato alla punta del campanile della chiesa. Il sacco si è rotto, la sabbia si è riversata giù ed è apparso così il deserto.
Stando alle considerazioni scientifiche il Deserto di Bledow è nato due volte.
Nel passaggio dal Terziario al Quaternario, in antiche rocce dolomitiche e calcaree del Triassico, si sono formate delle valli profonde. Successivamente, nell’era glaciale, queste valli si sono riempite di sedimenti di sabbia e ghiaia provenienti dalle stratificazioni dei detriti di rocce carbonatiche locali e sono scomparse. In quel momento è nato un deserto chilometrico. In seguito, nell’Olocene, ovvero diecimila anni fa, il clima delle parti di Bledow si è riscaldato ed è comparso il deserto.
Il fatto che il Deserto di Bledow esista ancora oggi è opera dell’uomo. Un intensivo disboscamento, a partire già dal Medioevo, ha fatto sì che il livello delle acque sotterranee nell’area del deserto scendesse a tal punto da non permettere più la crescita delle piante. Il deserto è nato quindi una seconda volta grazie allo scoprimento di circa 150 km2 di sabbia.


I cento laghi dai mille colori

Il contrario del deserto è l’acqua. I Laghetti Colorati situati nel Parco Paesaggistico Rudawski, sul territorio del villaggio Wiesciszowice, sono dei bacini d’acqua unici.
Giallo, porpora, celeste e nero sono le colorazioni di questi specchi d’acqua situati ai pendii del monte Wielka Kopa. Questi colori sono legati alla composizione chimica dei muri e dei fondi degli scavi.
C’era qui un tempo, infatti, una miniera di pirite che veniva poi trasformata in acido solforico. Dopo la chiusura della miniera gli scavi si sono riempiti d’acqua, formando quindi questi particolari laghetti.
Potete vedere dei bacini d’acqua colorati anche nel Geoparco Unesco Luk Muzakowa, situato vicino al Parco di Muskau nella regione Lubuskie, inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità Unesco.
È l’unico posto in Polonia che appartiene alla
Rete Mondiale dei Geoparchi. La sua attrazione consiste in circa 100 bacini d’acqua, derivanti dalle miniere di lignite, che hanno colorazioni diverse in base alla loro composizione chimica. Le strutture più interessanti sono state inserite nel sentiero geoturistico “Vecchia Miniera Babina”, vicino al quale si erge una torre panoramica di circa 30 metri. È un posto unico, dove i colori e le forme particolari dei laghetti riescono ad incantare chiunque.
A sua volta, nel centro della Polonia, nella regione di Lodz, è possibile trovare la Riserva Naturale Sorgenti Celesti.
I fenomeni carsici che avvengono in questa riserva le conferiscono un’aura misteriosa.
A causa loro, infatti, si vengono a creare delle forti pulsazioni delle sorgenti. Attrazione particolare è il fatto che l’acqua spinge dal fondo la sabbia che vista attraverso lo specchio dell’acqua ha un colorito unico celeste-azzurro-verde.
Le sfumature di questi colori, poi, dipendono dal meteo, dal grado di insolazione o dalla quantità di nuvole. Le Sorgenti Celesti insieme al Museo a cielo aperto del fiume Pilica e al Sentiero Turistico Sotterraneo “Groty Nagorzyckie” formano l’itinerario turistico dal nome “Tomaszowska Okraglica”.


Il bosco storto

Molto interessante dal punto di vista delle peculiarità naturali è il Bosco Storto, situato nei sobborghi di Gryfin, una piccola città nella regione della Pomerania Occidentale.
Un bosco così unico non c’è da nessun’altra parte in Polonia e forse nemmeno nel mondo.
In vicinanza della centrale di Dolna Odra, nella pineta, tra alberi dritti, cresce il “bosco ricurvo”. Su 22 file, in un territorio di circa 16 ettari, cresce un centinaio di pini dall’aspetto particolare.
Ad un’altezza di 20-50 centimetri da terra essi formano delle curve rivolte verso nord. Le pieghe a forma di arco hanno da un metro ai tre metri di lunghezza.
L’età degli alberi è stimata intorno ai 75 anni, sono stati piantati, quindi, all’inizio degli anni 30 del XX secolo. La deformazione è avvenuta a causa del danneggiamento della punta e dei rami laterali. L’unico ramo laterale rimasto ha preso la funzione di tronco e ha continuato a crescere verso l’alto. Il danneggiamento è avvenuto ancora prima della guerra, quando gli alberi avevano all’incirca 7 anni.
Per questo motivo si pensa che questi pini ricurvi siano un’opera consapevole dell’uomo, nati a causa di danneggiamenti meccanici. Forse stavano venendo preparati per poterli utilizzare nella produzione di qualche prodotto. I motivi di tutto questo non si conoscono ancora oggi, ma la visione di questi alberi piegati in modo strano è molto particolare.
E per finire i vulcani! Fortunatamente spenti, ma sicuramente da andare a vedere. Per facilitare la loro visita insieme ad altre, non meno interessanti, attrazioni è nato il Geoparco Terra dei Vulcani Spenti, che troverete nei Monti Kaczawskie nella Slesia Bassa.
Potrete conoscere le inusuali forme di basalto che rispecchiano la vecchia attività vulcanica di questo territorio. Questa terra non nasconde soltanto i vulcani, ma anche altre particolarità naturali e geologiche, ed altre attrazioni come i numerosi monumenti.

 

 

Il mondo delle api

Il mondo delle api

Vogliamo parlarvi di api, insetti straordinari che giocano un ruolo fondamentale negli ecosistemi e sulla nostra esistenza principalmente attraverso la funzione fondamentale dell’impollinazione.
Esistono migliaia di specie di api, ma quella più conosciuta è l’ape domestica (Apis mellifera), famosa per la produzione di miele.

Photo credit: Artur Rydzewski on VisualHunt

Le api salveranno il mondo

Le api sono, come accennato, i principali impollinatori delle piante, trasportando il polline da un fiore all’altro.
Questo processo è cruciale per la riproduzione di molte specie vegetali e, indirettamente, per la produzione alimentare umana, poiché circa un terzo delle colture dipende dall’impollinazione animale.
Negli ultimi anni, le api come sappiamo sono in grave pericolo poiché minacciate da fattori come l’uso di pesticidi, il cambiamento climatico e la perdita di habitat, elementi che portando a una preoccupante diminuzione delle popolazioni, conosciuta come sindrome dello spopolamento degli alveari.
La loro riduzione rappresenta un grave rischio per la biodiversità e la sicurezza alimentare globale.

Photo credit: PiùChéBella on Visualhunt

Tutte le curiosità su questo straordinario insetto

Le api sono animali straordinari e comunicano tra loro attraverso la danza dell’ape, un movimento che indica la posizione delle fonti di cibo.
Dedite come attività esclusiva alla produzione di miele, ogni ape produce in media solo un dodicesimo di cucchiaino di miele nella sua vita.
Sono oltre mille le specie diverse di api e l’Italia fa la sua parte con le selvatiche e le solitarie. Le api sono insetti particolarmente importanti per la biodiversità, poiché sono impollinatori specializzati per molte piante autoctone italiane. Scopriamo le due tipologie di ape italiana.


L’ape nera del Ponente Ligure

Il Ponente ligure è una sottile striscia di territorio compresa tra le spiagge occidentali del mar Ligure e le creste delle Alpi Marittime che segnano il confine con la Francia e il Piemonte, ed è caratterizzata da strette e lunghe valli, spesso inaccessibili e selvagge.
Nei secoli, gli abitanti di queste terre hanno ricavato spazi coltivabili strappandoli alle pendici rocciose e scavando i tipici terrazzamenti detti “fasce” o “maixei”, ancora oggi teatro di un’agricoltura eroica.
In questa zona di confine, in particolare nel territorio della provincia di Imperia, due sottospecie di api, la bionda (Apis mellifera ligustica), endemica della penisola italiana, e la nera (Mellifera Mellifera) proveniente dalla vicina Francia, si incontrano ibridandosi naturalmente da millenni, dando vita a un ecotipo ligure, comunemente chiamata ape nera del Ponente ligure.
L’ape nera del Ponente ligure è molto resistente: si è infatti adattata al particolare microclima e alla flora locale, gestendo le risorse e volando anche in condizioni climatiche avverse. Osservando alcune colonie in grado di sopravvivere nei tronchi di alberi o in anfratti di roccia, alcuni apicoltori delle valli interne hanno deciso di scommettere su quest’ape, allevandola e cercando di preservarla.
Lo stretto contatto con un ambiente totalmente naturale ha spinto verso una rigida selezione degli individui più forti, che oggi riescono più facilmente a contrastare le minacce che il mondo dell’apicoltura deve fronteggiare, tra cui patogeni, specie aliene, inquinamento e cambiamento climatico.
Nonostante la robustezza di questo impollinatore, la consistente introduzione di diverse sottospecie verificatasi a partire dal secondo dopoguerra ne ha causato una significativa erosione genetica, a cui oggi si unisce l’ulteriore minaccia di un insetto invasivo, la vespa velutina o calabrone asiatico, che nutre le proprie larve cacciando le api in volo. La grande voracità e la forte capacità di colonizzare interi areali, costruendo nidi in luoghi difficili da raggiungere, rende la vespa velutina un vero incubo per api e apicoltori.
Le aziende apistiche che preservano l’ape nera del Ponente ligure sono di piccola dimensione: dall’allevamento delle api ricavano miele – in prevalenza millefiori di macchia mediterranea, erica, castagno, propoli e polline. Nella gestione degli alveari è prassi degli apicoltori lasciare alle famiglie di api un quantitativo di miele sufficiente per affrontare il periodo invernale.


L’ape nera sicula

Non è vero che tutte le api sono gialle e nere.
La livrea che normalmente associamo all’ape è in realtà tipica della ape ligustica, l’ape più diffusa in Italia, tanto da essere definita anche ape italiana.
Esistono api scure, grigie o anche nerissime, proprio in Italia, simili morfologicamente alle api nere africane (dalle quali differiscono però per la minore aggressività): le quali nel dna hanno un miotipo genetico africano.
L’ape nera sicula (Apis mellifera siciliana) ha l’adome scurissimo e una peluria giallastra e le ali sono più piccole.
Ha popolato per millenni la Sicilia e poi è stata abbandonata negli anni ’70 quando gli apicoltori siciliani sostituirono i bugni di legno di ferula (le casse a forma di parallelepipedo usate come arnie) e iniziarono a importare api ligustiche dal nord Italia. L’ape sicula rischiò in quegli anni la totale estinzione, evitata grazie agli studi e alle ricerche di un entomologo siciliano,
Pietro Genduso, che la studiò per anni dopo la classificazione avvenuta ad opera di Montagano nel 1911. Genduso trasmise questa passione a uno studente, Carlo Amodeo, tuttora l’unico l’allevatore di api regine siciliane pure iscritto al registro nazionale.
Gli ultimi bugni di api nere sicule furono ritrovati in un baglio di Carini dove un vecchio massaro apicoltore produceva miele con quel sistema antico. I bugni contenevano alcune famiglie di api che Carlo Amodeo, dopo aver deciso di praticare l’apicoltura professionale, conservò in isolamento sulle isole di Vulcano e Filicudi.
È molto docile, tanto che non servono maschere nelle operazioni di smielatura, è molto produttiva – anche a temperature elevate, oltre i 40° quando le altre api si bloccano – e sopporta bene gli sbalzi di temperatura. Caratteristiche molto importanti per la produzioni in aree dal clima molto caldo.
La nera sicula inoltre sviluppa precocemente la covata, tra dicembre e gennaio, evitando quindi il blocco della covata invernale comune alle altre specie, e consuma meno miele delle altre api. Il miele di ape nera sicula non è invece diverso, dal punto di vista organolettico, da quello prodotto con le api di altre razze.
A lanciare l’allarme sul rischio di estinzione della sottospecie siciliana è stato nel 2008 l’apicoltore Carlo Amodeo, ultimo custode di tre linee genetiche. Oggi sono otto gli allevatori che hanno recuperato le regine da Amodeo si avvalgono della sua esperienza per reintrodurre la sottospecie autoctona e produrre miele.

La Catalogna in 5 tappe: dal mare alla montagna

La Catalogna in 5 tappe: dal mare alla montagna

Mar i muntanya (mare e montagna) ma anche città, fiume e vulcani: un viaggio nei paesaggi della gastronomia catalana, tra le più ricche del mondo.
Prima in Europa a ricevere il prestigioso riconoscimento grazie all’incredibile qualità, sostenibilità, tradizione e innovazione in campo gastronomico, per tutto il 2025 la Catalogna sarà Regió Mundial de la Gastronomia (Regione Mondiale della Gastronomia).
Aspettando un anno ricco di eventi, spunti e curiosità, per i gourmand provenienti da ogni angolo del globo, ecco qui apparecchiato un giro della Catalunya in cinque tappe – dal mare alla montagna, dalla città al fiume fino alla terra vulcanica – per scoprire e assaggiare alcune delle eccellenze culinarie della più “foodie” delle regioni spagnole.

I Pirenei

1 – Mare e monti fra i Pirenei

La montagna mette fame Si sa. Soprattutto se passeggiando lungo il fiume Garonna a Les, in Val d’Aran, si scopre che ci sono realtà come Caviar Nacarii, un’attività (con un elegante shop di degustazione e vendita nel centro storico di Vielha) che alleva gli storioni per ricavare un ottimo caviale da abbinare a un calice di Cava, lo spumante spagnolo per antonomasia.
Ma i Pirenei sono soprattutto carne, l’ingrediente che spunta un po’ ovunque nelle ricette tipiche della montagna, come la botifarra amb mongetes, la salsiccia abbinata ai fagioli (meglio se delle Dop Santa Pau e Mongeta del Ganxet) o il fricandó, il piatto tradizionale a base di vitello, rigorosamente della razza Igp transfrontaliera chiamata Rosée des Pyrénées Catalanes, e di funghi primaverili selvatici conosciuti localmente come moixernons.
Che dire infine del trinxat? Quando in alta quota il meteo della Catalunya comincia a raffreddarsi, questa delizia, fatta di cavolo, patate, pancetta affumicata e aglio, è un toccasana per corpo e spirito.

La Garroxta

2 – Invito a cena sul vulcano

Un patto tra la terra di La Garroxta, l’area vulcanica più grande e meglio conservata della penisola iberica, i suoi prodotti autoctoni, chi li coltiva e chi li cucina. Questo è il gruppo Cuina Volcànica, nato nel 1994 per valorizzare gli ingredienti che provengono dal fertile suolo della regione catalana.
Sono 8 i ristoratori, sparsi tra le cittadine di Olot, Sant Esteve d’en Bas e Sant Feliu de Pallerols, che hanno accettato la sfida di reinterpretare in modo creativo le ricette tradizionali a base di agnello, manzo, pomodoro di Montserrat, ricotta di capra, piumoc (salsiccia secca di maiale), patate della Vall d’en Bas, ravanelli neri, formaggio di pecora, farro, funghi selvatici, fagioli di Santa Pau e degli altri “tesori” gastronomici locali.
Se i circa coni 40 vulcanici del Parc Natural de la Zona Volcànica de la Garrotxa sono inattivi da secoli non si può certo dire lo stesso dei fornelli del Restaurant La Deu di Olot: oggi la famiglia Reixach è arrivata alla quinta generazione!

Il mercato del pesce

3 – Nel mare del gusto

Uhm, i gamberi di Palamós! Questo paese della Costa Brava è il principale porto di gamberi rossi di tutto il Mediterraneo.
Ogni giorno dalle 16.30 alle 19.30 al mercato ittico Llotja si acquistano freschi, pescati nel tratto di mare che va dal capo Begur alla foce del fiume Ridaura, dai pescatori della Confraria de Pescadors de Palamós oppure si gustano nei ristoranti locali, semplicemente a crudo o scottati due minuti alla griglia con un filo d’Oli de l’Empordà Dop.
Mare sì ma anche con un “pizzico” di montagna.
La cucina catalana, infatti, si distingue per il suo tipico mix (amato anche dagli chef stellati) “mar i muntanya”: così è per la classica paella, qui preparata sia con la carne sia con il pesce, e per alcune varianti del suquet de peix, la densa zuppa di pesce di scoglio tipica della tradizione marinara catalana che può contemplare l’aggiunta, ad esempio, di salsiccia o di lumache. Il suquet più mediterraneo?
Quello di Tossa de Mar, con cipolle e salsa allioli (aglio e olio).

Parc Natural del Delta de l’Ebre

4 – Acquolina in bocca lungo il fiume

Bastano poche parole: Dop Arròs del Delta de l’Ebre. Il riso abbonda nel Parc Natural del Delta de l’Ebre dove da sempre viene coltivato e raccolto con metodi artigianali e sostenibili, ad esempio, da Molí de Rafelet, storici arrossers fin dal 1910, per poi essere cucinato asciutto o in brodo.
L’altra protagonista indiscussa della cucina tipica della più grande zona umida della Catalunya è senz’altro l’anatra.
Dal 1996, alla Granja Luisiana si allevano i polli e le anatre del Delta dell’Ebro all’aperto e senza trattamenti antibiotici producendo una carne di primissima qualità che impreziosisce molti piatti locali.
Ancora le alici, le anguille, le cozze e le ostriche nate dall’incontro tra fiume e mare, i gamberi, le vongole, le canocchie, i cannolicchi e persino il prezioso tonno rosso: il Delta de l’Ebre dà ovunque i suoi “frutti”. E anche qualche verdura, come i cavolfiori e gli squisiti carciofi che accompagnano la famosa baldana d’arròs, il calorico sanguinaccio di riso tradizionale.

Casa Alfonso, cuore della tradizione catalana

5 – Due pasti in città

Meta gourmand, attuale sede della coppa velica più importante del mondo di richiamo internazionale con un numero record di ben 28 ristoranti stellati Michelin di cui 4 tre stelle, 3 due stelle e 21 una stella, contemporaneamente Barcellona continua a mantenere vivace la tradizione delle sue vecchie taverne.
Ci vuole fiuto per scovarle ma una volta provate non le si lascia più!
Due pasti in città? Per rivivere l’atmosfera del tipico quartiere marinaro di Barcellona, la Barceloneta, non c’è niente di meglio degli abbinamenti tapas e cava (lo spumante spagnolo) di Can Paixano, fondato nel 1969.
Se invece si è in cerca di un indirizzo famigliare per eccellenza, la quarta e la quinta generazione di Casa Alfonso, il locale che ha aperto le sue porte in zona Plaça de Catalunya nel 1934 (prima come salumeria e drogheria per la vendita di prodotti iberici e poi come ristorante), è pronto ad assecondare ogni sfizio, dalle svariate tipologie di croquetas (crocchette fritte), flautas e bocadillos (panini farciti), sopitas (zuppe), tapas e tante insalate.
Info www.canpaixano.com | www.casaalfonso.com

Non c’è due senza tre: Giovanni Manetti confermato alla guida del Consorzio Vino Chianti Classico

Non c’è due senza tre: Giovanni Manetti confermato alla guida del Consorzio Vino Chianti Classico

Nell’anno del Centenario del Consorzio vitivinicolo più antico d’Italia, Giovanni Manetti viene acclamato Presidente per la terza volta. Nel segno della continuità anche la scelta dei vice-presidenti: rieletti Francesco Colpizzi e Sergio Zingarelli.

Il tris di Giovanni Manetti

Il 9 settembre del 2021 Giovanni Manetti, classe ’63, chiantigiano Doc, era stato confermato Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico per il secondo mandato (triennale).
Nello stesso giorno del 2024 Manetti viene nuovamente acclamato, per la terza volta, per un altro triennio, alla guida del Consorzio, in un anno molto particolare per l’ente, quello del suo Centenario.
La nomina è avvenuta ieri da parte del neo-eletto Consiglio di Amministrazione che ha deciso, all’unanimità, di affidare nuovamente al proprietario della nota azienda chiantigiana Fontodi di Panzano, il delicato compito di condurre il Consorzio, e dare così continuità ad una visione strategica, che, negli ultimi anni, ha portato la denominazione Chianti Classico a crescere in notorietà, prestigio e valore.
La passione per il mondo del vino di Giovanni Manetti, che ama ancor oggi definirsi viticoltore-artigiano, Cavaliere del Lavoro dal 2021, lo ha portato a viverne molteplici aspetti, da tecnico, da imprenditore e da partecipante attivo alla vita della denominazione, come membro del Consiglio di Amministrazione del Consorzio dal 1992, in veste di Vice Presidente dal 2012 ed infine di Presidente dal 2018.
Questa esperienza varia e matura ha accolto il pieno consenso delle differenti categorie, rappresentate nel Consiglio di Amministrazione del Consorzio (viticoltori, vinificatori, imbottigliatori), le quali hanno ribadito la loro fiducia nell’approccio strategico promosso da Manetti, basato sulla ulteriore valorizzazione della denominazione del Gallo Nero, attraverso una continua ricerca della qualità del prodotto, fatta di autenticità e territorialità, migliorandone il posizionamento e l’immagine sui mercati nazionale e internazionale.

Giovanni Manetti

Le Uga, la Gran Selezione e il traguardo Unesco

Sotto la Presidenza Manetti sono stati raggiunti importanti traguardi per la  valorizzazione della denominazione, vedi per esempio la recente introduzione delle UGA (Unità Geografiche Aggiuntive) nel disciplinare di produzione e l’aumento della quota minima di uve Sangiovese per la tipologia Gran Selezione (dall’80 al 90%), con il divieto di utilizzare, per questo vino, i vitigni internazionali.
Altri progetti sono stati avviati e/o sono in divenire, dal percorso verso il riconoscimento Unesco, al lavoro su un protocollo di sostenibilità per il futuro della denominazione: progetti frutto di quella lungimiranza che ha da sempre contraddistinto lo spirito di chi ha amministrato il Consorzio, a partire da quel lontano 1924, quando i 33 padri fondatori ebbero la geniale idea di associare un simbolo visivo al prodotto che volevano tutelare e promuovere, scegliendo il Gallo Nero come emblema del vino Chianti Classico.
“Sono stato chiamato a rinnovare la disponibilità a guidare questo prestigioso Consorzio e sono molto contento della fiducia che tutta la compagine sociale nuovamente mi accorda.” – ha commentato Giovanni Manetti – “Accetto quindi volentieri questo impegno e, con rinnovato entusiasmo, spero di poter guidare il Consorzio e le nostre aziende socie per un altro triennio.
Molte sono le sfide che ci attendono nei prossimi anni, per cui mi auguro di poter continuare con successo la strada intrapresa, contribuendo al consolidamento e alla valorizzazione ulteriore di una delle eccellenze del mondo vitivinicolo italiano e internazionale.
Vorrei infine ringraziare i consiglieri che mi hanno affiancato fino ad oggi, coloro che sono stati riconfermati ma anche i nuovi eletti che sicuramente porteranno nuova linfa vitale e nuove idee in seno al nostro CdA.
Un ringraziamento particolare lo rivolgo poi a tutti i viticoltori chiantigiani: è grazie a loro, infatti, se la nostra denominazione continua ad affermarsi e a crescere a livello mondiale. Ringrazio tutti, infine, per continuare a credere nella “casa comune”, che è il nostro Consorzio. La coesione  è infatti, come più volte ho sottolineato, uno dei punti di forza della nostra denominazione: uniti si vince.”

Sergio Zingarelli, foto Canio Romaniello

I vicepresidenti e il consiglio d’amministrazione

Il Consorzio negli ultimi anni ha sempre più acquisito consapevolezza del legame indissolubile che esiste fra un prodotto d’eccellenza e il suo territorio di produzione.
Nel programma del prossimo triennio avranno infatti un ruolo prioritario l’avanzamento dell’iter per la candidatura Unesco del Chianti Classico come paesaggio culturale; il proseguimento delle attività del Distretto Rurale del Chianti, d’intesa con i Comuni del territorio; la ricerca agronomica sul territorio, anche per poter meglio fronteggiare, nel corso del tempo, i cambiamenti climatici; la promozione del progetto Unità Geografiche Aggiuntive, come strumento di amplificazione del binomio vino-territorio; e infine lo studio e lo sviluppo di un protocollo di sostenibilità che possa aiutare a preservare il nostro patrimonio – il vino Chianti Classico e il suo territorio di produzione – per le generazioni future.
Insieme a Giovanni Manetti, alla guida del Consorzio, sono stati confermati come Vice Presidenti Francesco Colpizzi e Sergio Zingarelli.
Il Consiglio di Amministrazione, eletto il 27 giugno, è composto da Laura Bianchi (Castello di Monsanto), Luigi Giovanni Cappellini (Castello di Verrazzano), Sebastiano Capponi (Conti Capponi – Villa Calcinaia), Alessandra Casini Bindi Sergardi (Bindi Sergardi), Andrea Cecchi (Cecchi), Francesco Colpizzi (Fattoria Toscanella), Duccio Corsini (Principe Corsini – Villa Le Corti), Renzo Cotarella (Antinori), Simone François (Castello di Querceto), Angela Fronti (Istine), Giovanni Manetti (Fontodi), Tommaso Marrocchesi Marzi (Tenuta di Bibbiano), Alessandro Marzotto (Lamole di Lamole), Nicolò Mascheroni Stianti (Castello di Volpaia), Filippo Mazzei (Marchesi Mazzei), Giovanni Poggiali (Fèlsina), Enrico Pozzesi (Rodano), Francesco Ricasoli (Ricasoli), Francesco Rossi Ferrini (La Sala del Torriano), Sandro Sartor (Ruffino), Sergio Zingarelli (Rocca delle Macìe).

Le Colline del Barbaresco: le terre di Fenoglio

Le Colline del Barbaresco: le terre di Fenoglio

Tra le 6 aree appartenenti al sito Unesco dei Paesaggi Vitivinicoli del Piemonte, quella delle Colline del Barbaresco si distingue per un forte carattere, evidente nella conformazione del territorio e nella radicata cultura legata alla produzione di uno dei più grandi vini italiani  riconosciuti a livello internazionale: il Barbaresco. 

Le colline dove nasce un grande vino

“Le colline del Barbaresco”, tra le 6 aree appartenenti al sito Unesco dei Paesaggi Vitivinicoli del Piemonte, sono il luogo dove nasce il vino rosso a lungo invecchiamento denominato, appunto, Barbaresco: una produzione di altissimo livello qualitativo che rientra a pieno titolo nel palinsesto dei grandi vini italiani riconosciuti a livello internazionale.
L’area di cui parliamo comprende solo due comuni, Barbaresco e Neive, le cui colline presentano una naturale predisposizione alla coltivazione del vitigno Nebbiolo, col quale si produce il Barbaresco, originario principalmente di quest’area, la cui ridotta produzione, in termini di bottiglie, è inversamente proporzionale alla sua inimitabile qualità.
Un vino dal colore rosso granato brillante che con l’invecchiamento assume sfumature aranciate che ricordano il mattone, dal profumo ampio che, a seconda della produzione, può ricordare la viola, la rosa, la frutta o la liquirizia, ma anche il pepe verde, la noce moscata, il fieno e il legno, o la nocciola tostata e con un sapore che ricorda l’immagine stessa di questi territori: intenso, pieno, robusto, austero ma allo stesso tempo vellutato ed armonico.

L’importanza dell’uomo a plasmare la terra

Il paesaggio di queste colline, adagiate sulla destra del fiume Tanaro, è fortemente caratterizzato dalla presenza di terreni esposti in pieno sole, dove si trovano i vigneti, che si alternano a più ombrose zone lasciate a bosco dove è facile scorgere robineti, storicamente utilizzati per ricavarne sostegni per la viticoltura.
Qui tutto parla di un sapiente uso del territorio da parte dell’uomo che, nel rispetto della natura, ha saputo ricavarne prodotti preziosi ed unici e per questo possiamo affermare che il Barbaresco è depositario di un patrimonio culturale locale che si presenta originale, unico ed autentico.
Il secolare lavoro dell’uomo ha plasmato straordinariamente le dorsali collinari restituendo un paesaggio dalla tessitura regolare, disegnato da appezzamenti di piccole dimensioni, che si appoggiano sull’orografia del terreno seguendone la conformazione.
Anche la fase della vinificazione contribuisce ulteriormente a testimoniare lo storico legame del vino Barbaresco con la sua terre d’origine, dal momento che tale tecnica, messa a punto da Domizio Cavazza nel castello di Barbaresco, alla fine dell’Ottocento, è tuttora la base, continuamente affinata in termini di innovazione tecnologica, per la produzione di uno dei vini più pregiati a livello internazionale, la cui produzione si basa oggi su un rigido disciplinare, che stabilisce che il Barbaresco sia prodotto esclusivamente con uve di vitigno Nebbiolo in purezza.

Barbaresco: a spasso nel borgo

Dell’abitato di Barbaresco, desta subito attenzione la torre medievale che, posta a strapiombo sul Tanaro, è uno degli edifici più riconoscibili del territorio di Langhe-Roero e Monferrato.
Tutto il borgo è caratterizzato dal tipico impianto urbano di età medievale con una via maestra su cui si affacciano le numerose attività legate alla storica vocazione vitivinicola di questi luoghi; in particolare alcune di queste si sono sviluppate all’interno di edifici di eccezionale valore architettonico, come l’Enoteca Regionale del Barbaresco, allestita negli spazi della chiesa barocca dedicata a San Donato (1833) poi ceduta negli anni Settanta del Novecento al Comune.
Questo luogo rappresenta una preziosa testimonianza della tradizione culturale vinicola di Barbaresco, il settecentesco edificio nobiliare voluto dai conti Galleani, in passato dotato di bellissimi giardini e di ampi saloni, conserva le originarie cantine sotterranee di grande valore pur essendo oggi proprietà di una tra le famiglie di viticoltori più conosciuti al mondo.
Nel 1894 il castello veniva scelto dal Professor Domizio Cavazza” – il padre del vino Barbaresco” e direttore della Reale Scuola Enologica di Alba, seconda in Italia – quale sede della prima Cantina Sociale di Barbaresco, chiusa in epoca fascista, poi riaperta nel 1958 con la denominazione Cantina Produttori del Barbaresco, ancora oggi punto di riferimento per 56 viticoltori locali. Anche Don Fiorino Marengo fu una figura chiave per i produttori locali. Arrivato a Barbaresco nell’immediato dopoguerra, comprese fin da subito il grande potenziale dell’esperienza associativa di Domizio Cavazza. Decise dunque di ripeterla al fine di promuovere l’emancipazione dei contadini dalla povertà estrema e da un individualismo ben radicato.
Nel 1958 riunisce quindi 19 agricoltori e fonda la Produttori del Barbaresco “per la qualifica e garanzia del Barbaresco”. La prima vendemmia venne vinificata nel cortile della casa del parroco e le vendite registrarono un ottimo margine rispetto a quanto si sarebbe guadagnato vendendo l’uva come si era fatto fino a quel momento.
Risale invece al 1999 la grande meridiana, collocata nella piazza centrale del paese, creata per celebrare la coltivazione della vite e della produzione vinicola attraverso dodici illustrazioni tratte dal “Ruralia Commoda” di Pietro de’ Crescenzi, un antico trattato di agricoltura.
Per dare massima diffusione alla cultura del vino, il borgo ospita molteplici manifestazioni nell’arco dell’anno; tra queste si ricordano in particolare “Il Barbaresco a tavola”  per presentare la nuova annata del rinomato vino, e la kermesse “Piacere Barbaresco” che si svolge nelle strade del paese con degustazioni,  convegni e incontri destinati agli addetti ai lavori.


Neive: dov’è nata la ricetta dell’enologia piemontese

Neive è stata riconosciuta nel 2001 tra “I borghi più belli d’Italia”. Per la sua posizione strategica lungo la via Aemilia Scauri, l’insediamento ricopriva un ruolo strategico già in età romana.
Oggi Neive è ancora un borgo arroccato alla sommità di un colle, le cui tortuose stradine acciottolate salgono secondo anelli concentrici fino alla sommità dell’altura denominata Pian del Castello dove un tempo sorgeva il castrum medievale oggi purtroppo scomparso.
Si conservano, invece, le numerose testimonianze dell’antico ricetto (receptum), tra cui emerge la duecentesca cassaforte dei Conti Cotti di Ceres.
Nelle sale di questo imponente edificio, Francesco Cotti scrisse alla fine del XVII secolo un importante trattato sulla viticoltura piemontese. Nelle immediate adiacenze si innalza la Torre dell’Orologio risalente al XIII secolo. Alla mole severa della torre medievale si contrappongono invece le linee sinuose del vicino insieme architettonico barocco – composto da cupola e campanile – dell’Arciconfraternita di San Michele, un piccolo capolavoro di metà Settecento progettato dall’architetto Antonio Borgese.

Poco più a valle, Piazza Italia rappresenta il cuore del paese su cui si affacciano pregevoli palazzi che raccontano della fase di espansione settecentesca del borgo: in particolare, la prima sede del Municipio con la sua facciata rococò e Palazzo Borgese attuale edificio comunale dalla composizione semplice e severa.
Nelle cantine del Municipio è ospitata la Bottega dei Quattro vini di Neive fondata nel 1983 da un piccolo gruppo di vignaioli locali per rappresentare Neive e i suoi vini nel Mondo; dopo oltre quarant’anni di attività è ancora oggi il punto di ritrovo, per acquistare e degustare i vini prodotti nell’area. Anche il Palazzo dei Conti del Castelborgo rappresenta una significativa testimonianza del legame tra l’aristocrazia piemontese e la tradizione vitivinicola locale; infatti, il nobile edificio settecentesco conserva le originarie cantine, oggi come un tempo, sede di rinomate produzioni vinicole. Il gusto barocco delle architetture raggiunge alti livelli anche nell’architettura del palazzo dei Conti Bongioanni Cocito, scenograficamente inquadrato dalla Porta di San Rocco, cioè l’originario ingresso verso sud del borgo medievale.


Serafino Levi, l’uomo degli alambicchi

Neive diede i natali a Serafino Levi che nel 1925 fondò una distilleria con alambicco a fuoco diretto, conosciuta come “Distilleria Levi“.
Dopo la precoce scomparsa di Serafino e della moglie, l’attività passò poi ai figli Romano e Lidia. Per oltre sessant’anni, i fratelli Levi continuarono la tradizione dei loro antenati producendo una grappa unica, conosciuta come “La Grappa della Donna Selvatica“. Quest’ultima non è un semplice distillato di vinacce, ma è anche il frutto dell’arte di Lidia nella composizione delle erbe immerse nella bottiglia e di Romano nella graficazione delle etichette, disegnate a mano.
Nei primi anni Sessanta Romano volle infatti differenziare la sua produzione da quelle dei concorrenti personalizzando le bottiglie una ad una con etichette disegnate o dedicate con poesie da egli stesso. Questa operazione ha permesso nel tempo di annoverare Romano tra i produttori di grappa più famosi al mondo e le sue bottiglie ancora oggi sono oggetto di collezionismo a livello internazionale.

Inoltre, da oltre settant’anni, ogni anno la distilleria rinnova il rito dell’accensione del fiammifero: momento in cui Romano Levi dava inizio alla distillazione con il suo alambicco a fuoco diretto. Oggi la casa-distilleria dei Levi è un Museo vivo e produttivo della Grappa, un’isola del tempo in cui il Genius Loci di Romano Levi aleggia ovunque.
La bellezza di questi luoghi è testimoniata anche nella letteratura del Novecento che ne ha celebrato alcuni scorci. Nei romanzi di Beppe Fenoglio, questi luoghi fanno da sfondo alle vicende delle brigate partigiane che qui si rifugiarono; furono soprattutto le caratteristiche rocche a picco sul fiume Tanaro a catturare l’attenzione dello scrittore: “Montavano la guardia sugli aerei, di per se stessi avventurosi, strapiombi sul fiume di Barbaresco. Là il fiume, ricordava Johnny, era stretto e profondissimo, lento come una colata di piombo, ed al gusto e alla vitalità della guardia concorreva il mistero immanente nelle fittissime pioppete sull’altra sponda vicinissima.” (Beppe Fenoglio, “Il partigiano Johnny).
Lo stesso romanzo ospita anche una descrizione del borgo di Neive: “La ragazza abitava a Neive, il grosso paese in fondo alla valle sovrastata da Mango, diviso in due borghi, il soprano dominante i truci scoscendimenti sul fiume Tanaro, il sottano dilagante dalla collina alle rotaie della ferrovia, deserte ed inattive dal giorno dell’armistizio.”
Da segnalare infine due itinerari che comprendono i borghi di Neive e Barbaresco, per accompagnare il turista nell’esplorazione del territorio.

La Strada Romantica, costituita da 11 tappe, 130 km di strade panoramiche, 300 spunti letterari e il trekking intitolato Da Barbaresco a Neive per una camminata panoramica tra i filari che segue parte del celebre e spettacolare percorso ciclo escursionistico “Bar to Bar”.