[:it]World Pasta Day. La preferita dei fiorentini è ripiena, con pere e pecorino o lampredotto[:]

[:it]World Pasta Day. La preferita dei fiorentini è ripiena, con pere e pecorino o lampredotto[:]

[:it]La preferiscono ripiena,  in particolare con burrata o pere e pecorino.  Si segnalano anche novità molto apprezzate: lampredotto e castagne di Marradi.
E’ la pasta preferita dai fiorentini,  clienti dei ristoranti e dei laboratori cittadini, secondo Confartigianato Imprese Firenze che ha fatto un’indagine tra i suoi associati in occasione del World Pasta Day di domani.

Il 50% dei clienti ordina la pasta ripiena, un 15% sceglie gnocchi, lo stesso per i tortellini, e il resto le forme classiche: lunga o corta. Un plebiscito anche per chi la compra cruda nei laboratori: qui la preferenza per il ripieno sale al 75%.

Chi acquista la pasta secca predilige soprattutto spaghetti (il semolato Cappelli va per la maggiore). In generale, si registra un trend di vendite in aumento per la semola integrale o semi integrale e la trafilatura a bronzo.

“Abbiamo voluto evidenziare soprattutto la ricerca della qualità nelle proposte dei produttori e dei ristoratori fiorentini  – commenta Alessandro Sorani, presidente Confartigianato Imprese Firenze – In un momento così difficile per il settore del commercio, sarebbe bello se domenica i fiorentini acquistassero oppure ordinassero,  anche da asporto, la pasta che preferiscono. Sarebbe un bel modo di festeggiare un prodotto che più di altri ci rappresenta e ci unisce”[:]

Inchiesta: viaggio nella malattia dimenticata, trent’anni dopo

Inchiesta: viaggio nella malattia dimenticata, trent’anni dopo

[:it]di Nadia Fondelli – Si avvicina anche quest’anno la settimana che accende i riflettori sulla malattia dimenticata. La European testing week non riempie le pagine dei giornali come dovrebbe, ne trova spazio in un distratto telegiornale.
Eppure quest’anno, dal 17 al 24 novembre sarà la sua quinta edizione di questo evento che a livello europeo si prefigge di informare e prevenire la diffusione di Hiv/Aids. Una settimana importante per promuovere l’accesso facilitato al test rapido semplice ed efficace, oltre che anonimo e gratuito, per verificare se si è contratto il virus Hiv.
Una occasione importante di prevenzione ed eventuale immediato accesso alle cure promossa da enti governativi, operatori sanitari e realtà della società civile per far prendere coscienza a una generazione che l’Aids non è ancora stato sconfitto.

Noi vogliamo iniziare un mese prima a parlarne per squarciare il velo ipocrita che avvolge ancora questa patologia convinti che fare giornalismo è anche responsabilità civile.
Quello dell’Hiv/Aids è oggi uno dei grandi buchi neri dei nostri tempi.
Una realtà dimenticata. Volutamente?

E pensare che un trentennio fa è nato come allarme sanitario di massa. Chi era giovane non può dimenticare le inquietanti immagini di una pubblicità che contornava di alone viola le persone che si infettavano dandosi la mano.
Una campagna comunicativa dirompente finita anche nei manuali di comunicazione che, se da una parte è servita a smuovere le coscienze e accendere i riflettori su un problema dall’altro ha innescato l’incredibile equivoco che la trasmissione virale poteva toccare tutti.
Eravamo tornati al Medioevo; al terrore degli untori.
Non a caso l’avevamo già bollata come la “peste del ventunesimo secolo” e riempivamo le pagine e gli schermi con servizi buoni a sollevare il terrore.
Nei lazzaretti mediatici finivano i gay e i tossicodipendenti. Queste erano le categorie colpite e così la coscienza delle “brave persone” era a posto, salvo poi scoprire, con l’evoluzione delle conoscenze sanitarie, che le cose erano parecchio diverse.
Il contagio poteva toccare chiunque, le conoscenze scientifiche avevano fatto passi da giganti, le cure riuscivano a contenere la pandemia e ridurre la mortalità e così da fenomeno mediatico, nel giro di un ventennio, l’argomento Hiv/Aids è caduto nell’oblìo.

Oggi non se ne parla più. Solo per il 1° dicembre – giornata mondiale dedicata alla malattia prima che ogni giorno dell’anno fosse dedicato a qualcosa – merita ancora qualche trafiletto.
Eppure il problema c’è.
Lo testimoniano i dati che fornisce Ars Toscana che in sei anni di sorveglianza delle nuove infezioni dice che 1763 sono le nuove diagnosi di contatto col virus, con un andamento costante, ma leggermente in crescita. Se nel 2009 erano 283 i nuovi casi nel 2014 lo sono stati 297.
Questi numeri parlano di quasi una persona al giorno che è entrata in contatto col virus. Sarebbe notizia da prima pagina se si parlasse di altro.

Ho voluto capirne di più e sono andata nella sede di Lila Toscana dove ho conosciuto volontari coraggiosi che riescono, con passione, costanza, umanità e competenza a portare avanti una battaglia comunicativa fatta di omissioni, censure e non detti.
Ma perchè?

“Perchè la parola Hiv è associata al sesso e al peccato e quindi è sconveniente”.
Non usa mezze misure per spiegare la faccenda Maria Rosa, professione psicologa ma con molte ore da volontaria al servizio della patologia dimenticata.
“Peccato, sesso, ma anche malattia, dolore, contagio e morte – puntualizza – ma lo stigma è duro a morire al punto che è più comodo pensare che sia ancora una malattia della “colpa”. Più consolidata la percezione che si muore meno, ma questo, paradossalmente, nell’indifferenza che avvolge l’argomento lo fa percepire come un non problema e di prevenzione non se ne parla più.”

Le buone nuove dovrebbero invece essere “sfruttate” come testimonia la recente campagna Lila “Noi possiamo” che, sull’onda della più ampia campagna internazionale “U=U, Undetectable=Untrasmittable ossia non rilevabile=non trasmissibile, sta facendo leva sulle straordinarie acquisizioni scientifiche per raccontare che le terapie stanno funzionando impedendo la trasmissione del virus.

Una potente arma anche per porre fine alle discriminazioni verso le persone Hiv, ma invece…
In Lila Toscana si opera ogni giorno, ogni settimana, ogni mese ed ogni anno e non solo in occasione della settimana europea dedicata al testing offrendo informazioni sulla prevenzione,facendo formazione, offrendo sostegno psicologico e legale, etc…
“Ogni mese abbiamo un giorno dedicato al test rapido salivale; gratuito e anonimo. Vengano in tanti a farlo, ma sarebbe bello arrivassero molte più persone.”

Noi abbiamo trascorso una giornata in Lila Toscana e ciò che ci ha colpito di più è stato lo stato d’ansia in attesa del risultato del test di tante le persone.
Una reazione umanamente normale, ma sovradimensionata alle conoscenze attuali che conferma che “un vuoto” d’informazione c’è..
“Se mi dicono che sono entrato in contatto col virus vado direttamente a buttarmi in Arno” racconta un giovane uomo sui trent’anni che fuma una sigaretta dietro l’altra. Gli fa eco un timido ragazzino, occhi a terra e un amico più grande a fargli compagnia che trema e balbetta quando afferma che anche per lui sarebbe una sentenza di morte.
Qualcosa non torna.
Se da una parte c’è leggerezza a non usare precauzioni, dall’altro sopravvive il terrore che quella sarebbe una condanna.
“E’ sempre così, per tutti – confessa in una pausa del lavoro Laura giovane biologa addetta al prelievo e anche lei volontaria entusiasta – sono capitata qui per caso perché cercavano una persona che facesse il mio mestiere e non sono più andata via.” E alla domanda: ma perché lo fai la risposta è immediata, entusiastica e sincera. “E’ egoismo, qui sto bene io!”
Ma il paradosso di una patologia criminalizzata me la svela Valerio volontario entrato in contatto con il virus una decina di anni fa.
“E’ la malattia della colpa. Oggi come ieri. Anch’io come prima reazione ebbi quella di colpevolizzarmi perché me l’ero cercata ed era il giusto castigo divino. Ho faticato a capire, ho dovuto fare un percorso complesso e faticoso dentro e fuori di me con il gruppo di auto aiuto che è stato determinante.”
Mi fa notare che la sede non ha insegne ed è una porta anonima in una strada anonima “sennò le persone non arriverebbero per la vergogna di incontrare per strada qualcuno che possa conoscerli e capire dove vanno” prosegue Valerio.
“C’è discriminazione. Tanta! Sei costretto a non svelarti e a nasconderti sul posto di lavoro e spesso anche con gli amici e in famiglia perché sei ancora oggi considerato un peccatore-untore”.
Ma cosa si prova ad essere in prima linea a cercare di urlare ai sordi?
“E’ dura – prosegue Maria Rosa – ma noi andiamo avanti. Vogliamo eliminare lo stigma che avvolge ancora l’argomento; far capire a chi è entrato in contatto col virus che può avere una vita normale con una malattia cronica meno invalidante di altre; che è necessario fare il test se si ha un qualche sospetto di essere entrati in contatto col virus; che le persone che lo hanno contratto non sono pericolose per la società se si curano e che il contagio avviene prevalentemente per trasmissione sessuale.”

Ma è difficile squarciare il muro di silenzio. E’ sconveniente dire nel ventunesimo secolo che usare il profilattico e fare sesso sicuro è necessario per proteggere la salute della società?
Noi vorremo solo poter essere una piccola goccia d’inchiostro e dire a tutti che la parola “stigma” che usano a Lila è di un’eleganza invidiabile.
Quella che c’è nei confronti dell’argomento si chiama solo discrimine. Stupido e ottuso. Apriamo gli occhi! E’ l’ora di svegliarsi.[:en]di Nadia Fondelli – Si avvicina anche quest’anno la settimana che accende i riflettori sulla malattia dimenticata. La European testing week non riempie le pagine dei giornali come dovrebbe, ne trova spazio in un distratto telegiornale.
Eppure quest’anno, dal 17 al 24 novembre sarà la sua quinta edizione di questo evento che a livello europeo si prefigge di informare e prevenire la diffusione di Hiv/Aids. Una settimana importante per promuovere l’accesso facilitato al test rapido semplice ed efficace, oltre che anonimo e gratuito, per verificare se si è contratto il virus Hiv.
Una occasione importante di prevenzione ed eventuale immediato accesso alle cure promossa da enti governativi, operatori sanitari e realtà della società civile per far prendere coscienza a una generazione che l’Aids non è ancora stato sconfitto.

Noi vogliamo iniziare un mese prima a parlarne per squarciare il velo ipocrita che avvolge ancora questa patologia convinti che fare giornalismo è anche responsabilità civile.
Quello dell’Hiv/Aids è oggi uno dei grandi buchi neri dei nostri tempi.
Una realtà dimenticata. Volutamente?

E pensare che un trentennio fa è nato come allarme sanitario di massa. Chi era giovane non può dimenticare le inquietanti immagini di una pubblicità che contornava di alone viola le persone che si infettavano dandosi la mano.
Una campagna comunicativa dirompente finita anche nei manuali di comunicazione che, se da una parte è servita a smuovere le coscienze e accendere i riflettori su un problema dall’altro ha innescato l’incredibile equivoco che la trasmissione virale poteva toccare tutti.
Eravamo tornati al Medioevo; al terrore degli untori.
Non a caso l’avevamo già bollata come la “peste del ventunesimo secolo” e riempivamo le pagine e gli schermi con servizi buoni a sollevare il terrore.
Nei lazzaretti mediatici finivano i gay e i tossicodipendenti. Queste erano le categorie colpite e così la coscienza delle “brave persone” era a posto, salvo poi scoprire, con l’evoluzione delle conoscenze sanitarie, che le cose erano parecchio diverse.
Il contagio poteva toccare chiunque, le conoscenze scientifiche avevano fatto passi da giganti, le cure riuscivano a contenere la pandemia e ridurre la mortalità e così da fenomeno mediatico, nel giro di un ventennio, l’argomento Hiv/Aids è caduto nell’oblìo.

Oggi non se ne parla più. Solo per il 1° dicembre – giornata mondiale dedicata alla malattia prima che ogni giorno dell’anno fosse dedicato a qualcosa – merita ancora qualche trafiletto.
Eppure il problema c’è.
Lo testimoniano i dati che fornisce Ars Toscana che in sei anni di sorveglianza delle nuove infezioni dice che 1763 sono le nuove diagnosi di contatto col virus, con un andamento costante, ma leggermente in crescita. Se nel 2009 erano 283 i nuovi casi nel 2014 lo sono stati 297.
Questi numeri parlano di quasi una persona al giorno che è entrata in contatto col virus. Sarebbe notizia da prima pagina se si parlasse di altro.

Ho voluto capirne di più e sono andata nella sede di Lila Toscana dove ho conosciuto volontari coraggiosi che riescono, con passione, costanza, umanità e competenza a portare avanti una battaglia comunicativa fatta di omissioni, censure e non detti.
Ma perchè?

“Perchè la parola Hiv è associata al sesso e al peccato e quindi è sconveniente”.
Non usa mezze misure per spiegare la faccenda Maria Rosa, professione psicologa ma con molte ore da volontaria al servizio della patologia dimenticata.
“Peccato, sesso, ma anche malattia, dolore, contagio e morte – puntualizza – ma lo stigma è duro a morire al punto che è più comodo pensare che sia ancora una malattia della “colpa”. Più consolidata la percezione che si muore meno, ma questo, paradossalmente, nell’indifferenza che avvolge l’argomento lo fa percepire come un non problema e di prevenzione non se ne parla più.”

Le buone nuove dovrebbero invece essere “sfruttate” come testimonia la recente campagna Lila “Noi possiamo” che, sull’onda della più ampia campagna internazionale “U=U, Undetectable=Untrasmittable ossia non rilevabile=non trasmissibile, sta facendo leva sulle straordinarie acquisizioni scientifiche per raccontare che le terapie stanno funzionando impedendo la trasmissione del virus.

Una potente arma anche per porre fine alle discriminazioni verso le persone Hiv, ma invece…
In Lila Toscana si opera ogni giorno, ogni settimana, ogni mese ed ogni anno e non solo in occasione della settimana europea dedicata al testing offrendo informazioni sulla prevenzione,facendo formazione, offrendo sostegno psicologico e legale, etc…
“Ogni mese abbiamo un giorno dedicato al test rapido salivale; gratuito e anonimo. Vengano in tanti a farlo, ma sarebbe bello arrivassero molte più persone.”

Noi abbiamo trascorso una giornata in Lila Toscana e ciò che ci ha colpito di più è stato lo stato d’ansia in attesa del risultato del test di tante le persone.
Una reazione umanamente normale, ma sovradimensionata alle conoscenze attuali che conferma che “un vuoto” d’informazione c’è..
“Se mi dicono che sono entrato in contatto col virus vado direttamente a buttarmi in Arno” racconta un giovane uomo sui trent’anni che fuma una sigaretta dietro l’altra. Gli fa eco un timido ragazzino, occhi a terra e un amico più grande a fargli compagnia che trema e balbetta quando afferma che anche per lui sarebbe una sentenza di morte.
Qualcosa non torna.
Se da una parte c’è leggerezza a non usare precauzioni, dall’altro sopravvive il terrore che quella sarebbe una condanna.
“E’ sempre così, per tutti – confessa in una pausa del lavoro Laura giovane biologa addetta al prelievo e anche lei volontaria entusiasta – sono capitata qui per caso perché cercavano una persona che facesse il mio mestiere e non sono più andata via.” E alla domanda: ma perché lo fai la risposta è immediata, entusiastica e sincera. “E’ egoismo, qui sto bene io!”
Ma il paradosso di una patologia criminalizzata me la svela Valerio volontario entrato in contatto con il virus una decina di anni fa.
“E’ la malattia della colpa. Oggi come ieri. Anch’io come prima reazione ebbi quella di colpevolizzarmi perché me l’ero cercata ed era il giusto castigo divino. Ho faticato a capire, ho dovuto fare un percorso complesso e faticoso dentro e fuori di me con il gruppo di auto aiuto che è stato determinante.”
Mi fa notare che la sede non ha insegne ed è una porta anonima in una strada anonima “sennò le persone non arriverebbero per la vergogna di incontrare per strada qualcuno che possa conoscerli e capire dove vanno” prosegue Valerio.
“C’è discriminazione. Tanta! Sei costretto a non svelarti e a nasconderti sul posto di lavoro e spesso anche con gli amici e in famiglia perché sei ancora oggi considerato un peccatore-untore”.
Ma cosa si prova ad essere in prima linea a cercare di urlare ai sordi?
“E’ dura – prosegue Maria Rosa – ma noi andiamo avanti. Vogliamo eliminare lo stigma che avvolge ancora l’argomento; far capire a chi è entrato in contatto col virus che può avere una vita normale con una malattia cronica meno invalidante di altre; che è necessario fare il test se si ha un qualche sospetto di essere entrati in contatto col virus; che le persone che lo hanno contratto non sono pericolose per la società se si curano e che il contagio avviene prevalentemente per trasmissione sessuale.”

Ma è difficile squarciare il muro di silenzio. E’ sconveniente dire nel ventunesimo secolo che usare il profilattico e fare sesso sicuro è necessario per proteggere la salute della società?
Noi vorremo solo poter essere una piccola goccia d’inchiostro e dire a tutti che la parola “stigma” che usano a Lila è di un’eleganza invidiabile.
Quella che c’è nei confronti dell’argomento si chiama solo discrimine. Stupido e ottuso. Apriamo gli occhi! E’ l’ora di svegliarsi.[:]

“Lo sguardo di Cécile” e di tutte le donne

[:it]7294317di Nadia Fondelli –  Nel 2008 ebbi modo di leggere il suo primo libro “E’ l’uomo per me” e ne rimasi affascinata. Trama leggera e ironia al limite del sarcasmo con cui l’autrice riesce a scandagliare una tipologia infinita su caratteri maschili.
Ne “Il bigodino di Rosalba” uscito nel 2011, sottotitolo “la filosofia è ovunque o in nessun luogo?” suo secondo lavoro da leggere con il sorriso sulle labbra, l’autrice senza annoiare, ma anzi con la tradizionale e quasi cinica ironia si spinge a filosofeggiare sulla filosofia; quella stessa materia che mastica nel quotidiano dalla cattedra delle aule scolastiche.
E’ infatti una  professoressa ancora viva sebbene lavori da due decenni nella scuola insegnando storia e filosofia Oriana Guarino. Si legge nella sua biografia.
In realtà è una salentina talentuosa che ha peraltro l’ingrato compito di scrivere con un nome di battesimo così impegnativo.

E’ uscito da poco nelle librerie (soprattutto cercatelo in rete) il suo terzo lavoro dove Oriana ci sorprende ancora una volta, andando oltre.
Oltre l’ironia, oltre il filosofeggiare “Gli occhi di Cécile”, bando alle ciance, se avesse la firma di un autore celebrato sarebbe già un best seller.
E’ un romanzo diverso, quasi un cazzotto nello stomaco ai perbenismi di facciata questa piccola-grande storia di una bambina che si fa poi ragazza e donna navigando nei mari tempestosi di una vita sofferta.
Va dritto al cuore il monologo che occupata molto spazio del volume di Cécile bambina con Spezzi la sua matita-bambola consolatrice dai soprusi, le cattiverie e le violenze non solo psicologiche rimaste chiuse nelle segrete di un orfanotrofio.

“Gli occhi di Cécile” che attraversano il libro sono gli stessi dell’autrice: intensi, celesti e che bucano dritti.
Lo sguardo che pulsa vivo e le parole nuove conquistate sono il fil rouge che conduce ad una nuova consapevolezza e alla raffigurazione di una speranza che tolga dai fanghi della vita.
Una parabola meravigliosa dell’essere donna oggi. Un libro necessario per affrontare nella maniera giusta tematiche quanto mai attuali che si fanno cronaca ogni giorno.

“Gli occhi di Cécile” è quell’agrodolce che conquista e Oriana Guarino sorprende per la sua capacità di essere altro rispetto alla scanzonata romanziera dei primi due libri.
Filosofeggia sempre, in alcuni momenti facendo venire anche il mal di testa a chi non mastica troppo di massimi sistemi, ma soprattutto tira cazzotti nello stomaco.
Costringe alla riflessione che porta alla comprensione e vince attraverso una storia apparentemente semplice che è percorso di vita. Forse la sua.

Un piccolo grande libro da leggere assolutamente.[:en]7294317di Nadia Fondelli –  Nel 2008 ebbi modo di leggere il suo primo libro “E’ l’uomo per me” e ne rimasi affascinata. Trama leggera e ironia al limite del sarcasmo con cui l’autrice riesce a scandagliare una tipologia infinita su caratteri maschili.
Ne “Il bigodino di Rosalba” uscito nel 2011, sottotitolo “la filosofia è ovunque o in nessun luogo?” suo secondo lavoro da leggere con il sorriso sulle labbra, l’autrice senza annoiare, ma anzi con la tradizionale e quasi cinica ironia si spinge a filosofeggiare sulla filosofia; quella stessa materia che mastica nel quotidiano dalla cattedra delle aule scolastiche.
E’ infatti una  professoressa ancora viva sebbene lavori da due decenni nella scuola insegnando storia e filosofia Oriana Guarino. Si legge nella sua biografia.
In realtà è una salentina talentuosa che ha peraltro l’ingrato compito di scrivere con un nome di battesimo così impegnativo.

E’ uscito da poco nelle librerie (soprattutto cercatelo in rete) il suo terzo lavoro dove Oriana ci sorprende ancora una volta, andando oltre.
Oltre l’ironia, oltre il filosofeggiare “Gli occhi di Cécile”, bando alle ciance, se avesse la firma di un autore celebrato sarebbe già un best seller.
E’ un romanzo diverso, quasi un cazzotto nello stomaco ai perbenismi di facciata questa piccola-grande storia di una bambina che si fa poi ragazza e donna navigando nei mari tempestosi di una vita sofferta.
Va dritto al cuore il monologo che occupata molto spazio del volume di Cécile bambina con Spezzi la sua matita-bambola consolatrice dai soprusi, le cattiverie e le violenze non solo psicologiche rimaste chiuse nelle segrete di un orfanotrofio.

“Gli occhi di Cécile” che attraversano il libro sono gli stessi dell’autrice: intensi, celesti e che bucano dritti.
Lo sguardo che pulsa vivo e le parole nuove conquistate sono il fil rouge che conduce ad una nuova consapevolezza e alla raffigurazione di una speranza che tolga dai fanghi della vita.
Una parabola meravigliosa dell’essere donna oggi. Un libro necessario per affrontare nella maniera giusta tematiche quanto mai attuali che si fanno cronaca ogni giorno.

“Gli occhi di Cécile” è quell’agrodolce che conquista e Oriana Guarino sorprende per la sua capacità di essere altro rispetto alla scanzonata romanziera dei primi due libri.
Filosofeggia sempre, in alcuni momenti facendo venire anche il mal di testa a chi non mastica troppo di massimi sistemi, ma soprattutto tira cazzotti nello stomaco.
Costringe alla riflessione che porta alla comprensione e vince attraverso una storia apparentemente semplice che è percorso di vita. Forse la sua.

Un piccolo grande libro da leggere assolutamente.[:]

Firenze: fra capre e cavoli

[:it]750967-pzaDiaz1di Nadia Fondelli – Il nuove regolamento comunale per “tutelare” il centro storico vara un’astrusa regola per regolamentare il commercio alimentare, ma prende un abbaglio e confonde tipicità per qualità.

Confesso: appena letta la notizia mi sono messa a ridere. Poi ho guardato il calendario. Non è il 1° di aprile e allora sul viso mi sì è spento il sorriso.
Il comune di Firenze per fermare l’onda dei kebabbari e dei minimarket venditori di alcol ha deciso che nel centro storico, patrimonio Unesco, i negozianti debbano vendere per il 70% da filiera corta o a chilometro zero altrimenti niente licenza.

La prima risata mi è partita all’idea del fantomatico chilometro zero. Neologismo che appartiene al dizionario cibo-moda che fa tanto chic.
Cosa vuol dire chilometro zero? Niente. Ricordo che in un convegno illuminato fu proprio il rappresentante di un ente agricolo a livello nazionale a smontare, mattoncino per mattoncino l’astrusa teoria. “Solo chi viene a comprare direttamente nella mia fattoria acquista a chilometro zero. Se io esco dal cancello e vendo al mercatino, già di chilometri ne ho fatti alcuni!” disse. Come dargli torto. E allora meglio tutt’all più parlare di filiera corta.

La seconda risata mi è venuta poi dal senso stesso del provvedimento. Forse gli amministratori fiorentini non hanno le idee chiare e confondono capre e cavoli. La filiera corta non è sinonimo di qualità e altre sono le cose che andrebbero guardate in un centro storico Unesco.


Cadrei nel qualunquismo a parlare di un centro storico degradato perché la visione è disponibile a tutti fra sporcizia, abusivismo diffuso e tollerato, mendicanti molesti, etc…
Sorprende che si chiuda la stalla solo dopo che i buoi sono scappati mentre i kebbabari sono fioriti in ogni dove e dei minimarket ce ne siamo accorti dopo più ragazzini ricoverati in coma etilico. Del resto la liberalizzazione delle licenze questo ha prodotto.

Da oggi a dettare regole dagli scranni alti di Palazzo Vecchio saranno solo un gruppo di “saggi” (funzionari e dirigenti?) che sicuramente mai si sono trovati a  dover distinguere un cannellino da uno zolfino, ma che in nome della tipicità fiorentina cancellano dai banchi: prosciutti di Parma e San Daniele, Grana Padano, etc…

Il bello e il buono del made in Italy già massacrato e non difeso da un’ Europa che importa olio tunisino dalla salubrità dubbia ad ettolitri, che impone di buttar via il latte in favore di polverine magiche e che misura la lunghezza delle banane e la larghezza delle vongole oggi trova il nemico anche in casa.

Come se il problema fosse la distanza chilometrica di produzione e non la qualità. Meglio allora un riso prodotto dai cinesi dell’Osmannoro a un Vialone vercellese?

L’errore è tutto lì. Tipicità non fa rima per forza con qualità.

E allora se lotta al degrado alimentare sia perché non controllare “l’artigianalità” di prodotti fuori stagione o fuori logica (penso al gelato al cocco a gennaio in Italia!); perché non controllare come fa ogni trattoria del centro ad offrire chianina-e-vino-tutto-compreso a 10 Euro!

Aprile è vicino e sperando che fosse stato davvero solo un bel pesce del primo giorno e non il mese in cui partiranno le sanzioni consiglio ai funzionari ed amministratori di leggersi un bignamino di agroalimentare di qualità e tipicità e poi riparliamone nella speranza che non si siano fatti anche lor abbagliare dai consigli preziosi di uno dei tanti esperti di cibo che vanno così di moda alla faccia di:
il cibo è salute ed espressione culturale di ogni popolo.

 [:en]750967-pzaDiaz1di Nadia Fondelli – Il nuove regolamento comunale per “tutelare” il centro storico vara un’astrusa regola per regolamentare il commercio alimentare, ma prende un abbaglio e confonde tipicità per qualità.

Confesso: appena letta la notizia mi sono messa a ridere. Poi ho guardato il calendario. Non è il 1° di aprile e allora sul viso mi sì è spento il sorriso.
Il comune di Firenze per fermare l’onda dei kebabbari e dei minimarket venditori di alcol ha deciso che nel centro storico, patrimonio Unesco, i negozianti debbano vendere per il 70% da filiera corta o a chilometro zero altrimenti niente licenza.

La prima risata mi è partita all’idea del fantomatico chilometro zero. Neologismo che appartiene al dizionario cibo-moda che fa tanto chic.
Cosa vuol dire chilometro zero? Niente. Ricordo che in un convegno illuminato fu proprio il rappresentante di un ente agricolo a livello nazionale a smontare, mattoncino per mattoncino l’astrusa teoria. “Solo chi viene a comprare direttamente nella mia fattoria acquista a chilometro zero. Se io esco dal cancello e vendo al mercatino, già di chilometri ne ho fatti alcuni!” disse. Come dargli torto. E allora meglio tutt’all più parlare di filiera corta.

La seconda risata mi è venuta poi dal senso stesso del provvedimento. Forse gli amministratori fiorentini non hanno le idee chiare e confondono capre e cavoli. La filiera corta non è sinonimo di qualità e altre sono le cose che andrebbero guardate in un centro storico Unesco.


Cadrei nel qualunquismo a parlare di un centro storico degradato perché la visione è disponibile a tutti fra sporcizia, abusivismo diffuso e tollerato, mendicanti molesti, etc…
Sorprende che si chiuda la stalla solo dopo che i buoi sono scappati mentre i kebbabari sono fioriti in ogni dove e dei minimarket ce ne siamo accorti dopo più ragazzini ricoverati in coma etilico. Del resto la liberalizzazione delle licenze questo ha prodotto.

Da oggi a dettare regole dagli scranni alti di Palazzo Vecchio saranno solo un gruppo di “saggi” (funzionari e dirigenti?) che sicuramente mai si sono trovati a  dover distinguere un cannellino da uno zolfino, ma che in nome della tipicità fiorentina cancellano dai banchi: prosciutti di Parma e San Daniele, Grana Padano, etc…

Il bello e il buono del made in Italy già massacrato e non difeso da un’ Europa che importa olio tunisino dalla salubrità dubbia ad ettolitri, che impone di buttar via il latte in favore di polverine magiche e che misura la lunghezza delle banane e la larghezza delle vongole oggi trova il nemico anche in casa.

Come se il problema fosse la distanza chilometrica di produzione e non la qualità. Meglio allora un riso prodotto dai cinesi dell’Osmannoro a un Vialone vercellese?

L’errore è tutto lì. Tipicità non fa rima per forza con qualità.

E allora se lotta al degrado alimentare sia perché non controllare “l’artigianalità” di prodotti fuori stagione o fuori logica (penso al gelato al cocco a gennaio in Italia!); perché non controllare come fa ogni trattoria del centro ad offrire chianina-e-vino-tutto-compreso a 10 Euro!

Aprile è vicino e sperando che fosse stato davvero solo un bel pesce del primo giorno e non il mese in cui partiranno le sanzioni consiglio ai funzionari ed amministratori di leggersi un bignamino di agroalimentare di qualità e tipicità e poi riparliamone nella speranza che non si siano fatti anche lor abbagliare dai consigli preziosi di uno dei tanti esperti di cibo che vanno così di moda alla faccia di:
il cibo è salute ed espressione culturale di ogni popolo.

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Firenze: resilienza? Sì, si deve

[:it]Lunigiana148di Nadia Fondelli –  Si e svolto nei giorni scorsi nel magico scenario del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze un workshop importante, passato sottotraccia per i colleghi della stampa. Peccato.

Sarà per la mia anima di volontaria ma credo che parlare di  resilienza sia molto importante. E a tutti i livelli.
Mi soffermo un attimo sulla parola resilienza che anche se non ha il fascino di petaloso si può considerare un neologismo in quanto parola poco frequente da molti.
“Resilienza” significa “capacità degli oggetti di resistere a un urto”. Ma in Palazzo Vecchio, la parola è stata applicata agli esseri umani determinando così che resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici come i disastri naturali o gli atti di terrorismo.
Psicologi, sociologi, medici e altri specialisti si sono alternati all’oratoria per parlare di come “Accrescere la resilienza nella popolazione”.

Su tutti, a noi ha dato lo spunto per scrivere questo pezzo l’intervento gagliardo del sindaco di Montelupo Fiorentino Paolo Masetti, non a caso responsabile di protezione civile per l’Anci regionale e già dirigente di protezione civile in provincia.
Masetti ha colto l’occasione per lanciare un grido d’allarme e togliersi dalle scarpe alcuni sassolini. Nemmeno tanto piccoli.
I numeri parlano più di mille parole nella loro semplicità. Dal 1945 al 2015 in Italia per disastri naturali ci sono stati 5455 morti in 2458 comuni e 101 province in tutte le regioni italiane.
Se poi aggiungiamo che il 78% delle frane che colpiscono i 28 paesi della comunità europea sono in Italia non abbiamo certo da che stare rilassati.

Eppure di protezione civile si parla e si fa davvero poco.
Sembra che quei volontari vestiti con abiti sgargianti sbuchino fuori dal niente solo quando c’è qualche disastro.
Masetti ha voluto dire che, invece, di protezione civile serve parlare e farlo sempre.

Eppure anche alcuni sindaci non sono consapevoli della propria responsabilità. Ricordo un collega – dice  – che a seguito di una tragedia che aveva colpito il suo comune, intervistato su cosa stesse facendo per far fronte all’emergenza candidamente risposte che per questo si doveva sentire la protezione civile.
Ignorando che, in qualsiasi comune il responsabile massimo di protezione civile è proprio il sindaco!

Ma anche se il sindaco (fortunatamente nella maggioranza dei casi) è ben conscio del ruolo è altrettanto conscio di avere un cerino acceso in mano perché, tornando ai numeri, è quasi scontato che nell’arco del mandato si troverà a fronteggiare almeno un’emergenza più o meno grave che sia.
Il problema è quindi affrontare la situazione facendosi trovare preparati.
Le pubbliche amministrazioni notoriamente hanno le casse vuote, ma il problema non è solo nei danari ma anche nella mancanza di competenze.

In poche parole, per la regola astrusa della rotazione nei ruoli dei dipendenti delle amministrazioni comunali, ci sta che un sindaco si trovi ad occupare la poltrona di responsabile di protezione civile un dipendente senza alcuna competenza specifica che magari fino al giorno prima faceva certificati anagrafici.
Ovvio che finché non succede niente tutto passa sotto traccia ma.

La protezione civile svolge la sua funzione soprattutto se riesce a prevenire. Ma per prevenire serve parlare del tema come di un atto consapevole del quotidiano.
Ogni cittadino deve sapere che il primo esperto di protezione civile è lui stesso.
Il comune poi ci mette del suo. Con un sindaco consapevole e magari una figura professionale ad hoc, come sta chiedendo (e lavorando per farlo) Masetti sia a livello di Anci che presso il Dipartimento a Roma.
Serve qualcosa di nuovo, serve chiarezza.

Serve che ognuno abbia un ruolo e lo sappia svolgere perché se poi il disastro arriva sapere chi fa che cosa determina la differenza fra vivere e morire.
Ma soprattutto Masetti ci ha voluto scuotere ricordandoci di non abbassare la guardia ricordando sempre di parlare di protezione civile. Fosse anche per parlare semplicemente dei piani comunali, delle buone norme in caso di ghiaccio, neve, vento etc…

 [:en]Lunigiana148di Nadia Fondelli –  Si e svolto nei giorni scorsi nel magico scenario del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze un workshop importante, passato sottotraccia per i colleghi della stampa. Peccato.

Sarà per la mia anima di volontaria ma credo che parlare di  resilienza sia molto importante. E a tutti i livelli.
Mi soffermo un attimo sulla parola resilienza che anche se non ha il fascino di petaloso si può considerare un neologismo in quanto parola poco frequente da molti.
“Resilienza” significa “capacità degli oggetti di resistere a un urto”. Ma in Palazzo Vecchio, la parola è stata applicata agli esseri umani determinando così che resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici come i disastri naturali o gli atti di terrorismo.
Psicologi, sociologi, medici e altri specialisti si sono alternati all’oratoria per parlare di come “Accrescere la resilienza nella popolazione”.

Su tutti, a noi ha dato lo spunto per scrivere questo pezzo l’intervento gagliardo del sindaco di Montelupo Fiorentino Paolo Masetti, non a caso responsabile di protezione civile per l’Anci regionale e già dirigente di protezione civile in provincia.
Masetti ha colto l’occasione per lanciare un grido d’allarme e togliersi dalle scarpe alcuni sassolini. Nemmeno tanto piccoli.
I numeri parlano più di mille parole nella loro semplicità. Dal 1945 al 2015 in Italia per disastri naturali ci sono stati 5455 morti in 2458 comuni e 101 province in tutte le regioni italiane.
Se poi aggiungiamo che il 78% delle frane che colpiscono i 28 paesi della comunità europea sono in Italia non abbiamo certo da che stare rilassati.

Eppure di protezione civile si parla e si fa davvero poco.
Sembra che quei volontari vestiti con abiti sgargianti sbuchino fuori dal niente solo quando c’è qualche disastro.
Masetti ha voluto dire che, invece, di protezione civile serve parlare e farlo sempre.

Eppure anche alcuni sindaci non sono consapevoli della propria responsabilità. Ricordo un collega – dice  – che a seguito di una tragedia che aveva colpito il suo comune, intervistato su cosa stesse facendo per far fronte all’emergenza candidamente risposte che per questo si doveva sentire la protezione civile.
Ignorando che, in qualsiasi comune il responsabile massimo di protezione civile è proprio il sindaco!

Ma anche se il sindaco (fortunatamente nella maggioranza dei casi) è ben conscio del ruolo è altrettanto conscio di avere un cerino acceso in mano perché, tornando ai numeri, è quasi scontato che nell’arco del mandato si troverà a fronteggiare almeno un’emergenza più o meno grave che sia.
Il problema è quindi affrontare la situazione facendosi trovare preparati.
Le pubbliche amministrazioni notoriamente hanno le casse vuote, ma il problema non è solo nei danari ma anche nella mancanza di competenze.

In poche parole, per la regola astrusa della rotazione nei ruoli dei dipendenti delle amministrazioni comunali, ci sta che un sindaco si trovi ad occupare la poltrona di responsabile di protezione civile un dipendente senza alcuna competenza specifica che magari fino al giorno prima faceva certificati anagrafici.
Ovvio che finché non succede niente tutto passa sotto traccia ma.

La protezione civile svolge la sua funzione soprattutto se riesce a prevenire. Ma per prevenire serve parlare del tema come di un atto consapevole del quotidiano.
Ogni cittadino deve sapere che il primo esperto di protezione civile è lui stesso.
Il comune poi ci mette del suo. Con un sindaco consapevole e magari una figura professionale ad hoc, come sta chiedendo (e lavorando per farlo) Masetti sia a livello di Anci che presso il Dipartimento a Roma.
Serve qualcosa di nuovo, serve chiarezza.

Serve che ognuno abbia un ruolo e lo sappia svolgere perché se poi il disastro arriva sapere chi fa che cosa determina la differenza fra vivere e morire.
Ma soprattutto Masetti ci ha voluto scuotere ricordandoci di non abbassare la guardia ricordando sempre di parlare di protezione civile. Fosse anche per parlare semplicemente dei piani comunali, delle buone norme in caso di ghiaccio, neve, vento etc…

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Vino toscano: fra zirconi e diamanti

[:it]20160215_124550di Nadia Fondelli –  Le stelle nel firmamento del vino toscano brillano. I dati sull’export vincolo sono entusiasmanti, ma non è tutto oro quello che luccica.

Molto spesso uno zircone ben intagliato abbaglia gli occhi più di un autentico brillante e così succede nel vino che, non a caso, anche l’assessore Remaschi nella conferenza di presentazione della lunga settimana delle anteprime di Bacco ha definito “la locomotiva dell’agroalimentare della regione”.

A livello export i risultati, rimanendo ai paragoni astronomici, sono davvero a cinque stelle. La Toscana si colloca al secondo posto nazionale per valore di esportazioni dopo il Veneto e prima del Piemonte.
La quota vino regionale nel panorama italico passa dal 14,8% del 2014 al 16,7% del 2015 e addirittura, dal 2003 ad oggi, nonostante la congiuntura economica negativa e due annate non troppo favorevoli il commercio estero è aumentato del 102,4%.

Tornano a volare i mercati nord americani (+15,8%) ed europei (+5,6%), molto lunatici i paesi del BRIC con il Brasile che scende del -28,4% e la Cina che cresce del +32,4%. Ma ciò che sorprende sono Paesi emergenti anche difficili da immaginare come l’India che cresce del +120% e il Sud Africa del +140,8%. Ottime e insperate performance anche da parte di Nuova Zelanda con +19%, Israele +32,1% e perfino Emirati Arabi Uniti con un sorprendente +11,5%!

Ma anche i bianchi di Toscana meno famosi e popolari segnano cifre a doppio zero e stesso risultato lo aspettiamo a breve anche per i rosati che stanno prepotentemente tornando ad essere presenti nel corredo delle principali casate vinicole dopo un oblio di decenni grazie al loro mix di profumi, sapori e leggerezza che li rendono perfetti per ogni stagione e circostanza.

Le giovani generazioni, i cosiddetti “Millennians” nel modaiolo mondo del vino vedono la Toscana come punto di riferimento e questo fa prevedere un futuro radioso.
Beati loro. Chi invece, come chi scrive, ha qualche capello bianco, ha visto il vino passare dai bassifondi ai caveaux e dopo migliaia di degustazioni sul palato non confonde ormai gli zirconi con i diamanti.

Degustando le varie denominazioni in anteprima, non ci siamo lasciati troppo affascinare dai pomposi proclami festaioli e i budget da capogiro che accompagnano i 300 anni del Chianti Classico e al bicchiere ci siamo annoiati come ormai tradizione da molti anni.
Verrebbe da dire che serve più personalità e coraggio, ma ci siamo annoiati anche di ripetere questo.
Siamo invece rimasti favorevolmente sorpresi dagli altri vini, quelli meno osannati e con budget promozionali senza troppi zero che, ligi alla tradizione, propongono ancora sapori autentici e caratteriali infischiandosene della ruffianeria di circostanza.
Su tutti segnalo il Vin Ruspo di Carmignano straordinario esempio di rosato emergente e il
vino minerale vulcanico del Montecucco dell’Amiata.

[:en]20160215_124550di Nadia Fondelli –  Le stelle nel firmamento del vino toscano brillano. I dati sull’export vincolo sono entusiasmanti, ma non è tutto oro quello che luccica.

Molto spesso uno zircone ben intagliato abbaglia gli occhi più di un autentico brillante e così succede nel vino che, non a caso, anche l’assessore Remaschi nella conferenza di presentazione della lunga settimana delle anteprime di Bacco ha definito “la locomotiva dell’agroalimentare della regione”.

A livello export i risultati, rimanendo ai paragoni astronomici, sono davvero a cinque stelle. La Toscana si colloca al secondo posto nazionale per valore di esportazioni dopo il Veneto e prima del Piemonte.
La quota vino regionale nel panorama italico passa dal 14,8% del 2014 al 16,7% del 2015 e addirittura, dal 2003 ad oggi, nonostante la congiuntura economica negativa e due annate non troppo favorevoli il commercio estero è aumentato del 102,4%.

Tornano a volare i mercati nord americani (+15,8%) ed europei (+5,6%), molto lunatici i paesi del BRIC con il Brasile che scende del -28,4% e la Cina che cresce del +32,4%. Ma ciò che sorprende sono Paesi emergenti anche difficili da immaginare come l’India che cresce del +120% e il Sud Africa del +140,8%. Ottime e insperate performance anche da parte di Nuova Zelanda con +19%, Israele +32,1% e perfino Emirati Arabi Uniti con un sorprendente +11,5%!

Ma anche i bianchi di Toscana meno famosi e popolari segnano cifre a doppio zero e stesso risultato lo aspettiamo a breve anche per i rosati che stanno prepotentemente tornando ad essere presenti nel corredo delle principali casate vinicole dopo un oblio di decenni grazie al loro mix di profumi, sapori e leggerezza che li rendono perfetti per ogni stagione e circostanza.

Le giovani generazioni, i cosiddetti “Millennians” nel modaiolo mondo del vino vedono la Toscana come punto di riferimento e questo fa prevedere un futuro radioso.
Beati loro. Chi invece, come chi scrive, ha qualche capello bianco, ha visto il vino passare dai bassifondi ai caveaux e dopo migliaia di degustazioni sul palato non confonde ormai gli zirconi con i diamanti.

Degustando le varie denominazioni in anteprima, non ci siamo lasciati troppo affascinare dai pomposi proclami festaioli e i budget da capogiro che accompagnano i 300 anni del Chianti Classico e al bicchiere ci siamo annoiati come ormai tradizione da molti anni.
Verrebbe da dire che serve più personalità e coraggio, ma ci siamo annoiati anche di ripetere questo.
Siamo invece rimasti favorevolmente sorpresi dagli altri vini, quelli meno osannati e con budget promozionali senza troppi zero che, ligi alla tradizione, propongono ancora sapori autentici e caratteriali infischiandosene della ruffianeria di circostanza.
Su tutti segnalo il Vin Ruspo di Carmignano straordinario esempio di rosato emergente e il
vino minerale vulcanico del Montecucco dell’Amiata.

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