“Cammini aperti”: 42 escursioni attraverso l’Italia meno nota

“Cammini aperti”: 42 escursioni attraverso l’Italia meno nota

“Cammini Aperti” è il più importante evento nazionale dedicato ai cammini: 42 escursioni, 2 per ogni regione e provincia autonoma, che si terranno il 13 e il 14 aprile.
Un’esperienza all’insegna del turismo lento, in cui scoprire, lungo sentieri e itinerari unici, un modo diverso di vivere il nostro Paese, anche nei suoi angoli meno noti.
Gli oltre 2.000 partecipanti iscritti saranno accompagnati da guide ambientali escursionistiche o accompagnatori
di media montagna.
Un weekend
in cui scoprire le bellezze di ogni regione, da nord a sud, attraverso arte, storia, spiritualità e natura, con momenti di intrattenimento e degustazioni enogastronomiche.

Il progetto, ideato da Regione Umbria in quanto
capofila del Turismo Lento, congiuntamente a tutte le regioni italiane, è stato sviluppato in collaborazione con il Ministero del Turismo ed Enit, e rientra nel più ampio progetto di promozione turistica “Scopri l’Italia che non Sapevi – Viaggio Italiano”, parte del Piano di Promozione Nazionale 2022.
Cammini Aperti vede il coinvolgimento di altri due importanti partner, il CAI, Club Alpino Italiano, e FISH, Federazione Italiana Superamento Handicap.
Il CAI ha selezionato 21 cammini, uno per regione, e identificato un tratto per ogni cammino percorribile anche da persone con difficoltà motoria, mediante l’impiego di Joëlette o carrozzine. Inoltre, CAI sarà presente lungo tutti i 42 cammini per dare informazioni e incentivare la pratica responsabile dell’outdoor. FISH garantirà l’accessibilità dei percorsi, lavorando affinché le persone con disabilità possano partecipare pienamente alle escursioni.
Attraverso iniziative di sensibilizzazione e collaborazioni con le autorità locali e le federazioni regionali sarà promosso un sistema di turismo lento accessibile e inclusivo per tutti, anche per coloro con mobilità ridotta.

Carbonara day. Compie  70 anni il (falso) piatto italiano più amato al mondo

Carbonara day. Compie 70 anni il (falso) piatto italiano più amato al mondo

Ci sono ricette mito e la Carbonara è sicuramente il caso più eclatante, tanto da meritarsi addirittura una giornata tutta sua.
Oggi 6 aprile è il #CarbonaraDay, la spaghettata social più amata al mondo che giunge quest’anno alla sua ottava edizione.
L’evento, voluto dai pastai di Unione Italiana Food, unisce professionisti, appassionati e buongustai sul piatto di pasta più amato, replicato e discusso al mondo che, quest’anno, ha un motivo in più per essere celebrato dato che festeggia i 70 anni dalla sua prima ricetta italiana uscita nel 1954 sulle pagine del periodico La Cucina Italiana.
Un compleanno impossibile da non festeggiare, con uno sguardo al passato, uno al futuro e, più in generale, al rapporto tra tradizione e contaminazione fusion in cucina.

70 anni di un mito italiano per caso

Sulla carbonara sono stati versati fiumi di inchiostro e addirittura è stata la protagonista di un (serioso) convegno finito a spaghettata all’Università della Cucina Italiana di cui vi abbiamo parlato (articolo qui)
ma impossibile non tornare sul tema dato che, quando si dice Carbonara oggi si parla di migliaia di interpretazioni diversi che non possono non mettere in dubbio l’origine italiana di una ricetta nata per gli americani….
Una ricetta italianissima, anzi un simbolo dell’Italia nel mondo nata per caso, ma sulle cui origini fumose si è alzato il mito.
Per conoscere tutte le informazioni su questo piatto vi rimandiamo all’articolo che abbiamo citato sopra, troverete anche una ricetta per farla in casa e partecipare così alla maratona a cui ricordiamo che lo scorso anno ha coinvolto oltre 1 miliardo di pasta lovers nel mondo che hanno condiviso la “loro” carbonara in rete.

Photo credit: Photos & Food Blog on Visualhunt

Carbonara fra cinema e miti

Una domanda a cui è difficile dare una risposta univoca anche se seguendo le tracce della storia quella che oggi definiamo la ricetta classica dovrebbe essere quella che prevede pasta, guanciale, uova, pecorino e pepe.
Tante le citazioni letterarie fra cui citiamo “La Carbonara non esiste” di Alessandro Trocino e “La Carbonara perfetta” di Eleonora Cozzella.
La prima citazione in assoluto di questo piatto trovata negli archivi ci riporta al 1950 in un articolo del quotidiano torinese La Stampa che paprla della “Festa de’ Noantri di Trastevere che ospitò papa Pacelli, Pio XII. L’autore dell’articolo, tra i tanti ristoranti cita “Ceseretto alla Cisterna”, il cui oste accolse per primo gli ufficiali americani giunti in Trastevere in cerca degli spaghetti alla carbonara.
Nel 1951 si parla di carbonara nel film italiano, “Cameriera bella presenza offresi” quando il protagonista Aldo Fabrizi fa un colloquio di lavoro con Maria (Elsa Merlini) e le chiede: “Scusi un momento, senta un po’, ma lei li sa fare gli spaghetti alla carbonara?”. Maria scuote la testa sconsolata ma è la prova che gli spaghetti alla carbonara sono già conosciuti e considerati un piatto d’eccellenza.
Le cronache del 1952 del Corriere della Sera invece narrano della della passione per questo piatto dell’attore Gregory Peck, stabilitosi ad Anzio per le riprese di “Vacanze romane”.

photo credit: Wine Dharma on VisualHunt.com

Classica, tradizionale o alternativa? 400 le varianti nel mondo!

Per i puristi ne esiste solo una versione ma per i fantasiosi e innovatori invece non ci sono limiti alla fantasia.
La carbonara è in effetti anche il piatto al mondo che il maggior numero di imitazioni nella storia della gastronomia recente tant’è che secondo un articolo del New York Times di Ian Fisher pare che ne esistano oltre 400 in giro per il mondo!
Secondo l’Unione Italiana Food, la Carbonara risulta il laboratorio della pasta che intercetta nuovi stili di vita alimentare e modalità di consumo, tra rielaborazioni e improvvisazioni dell’ultimo minuto e ingredienti nuovi e non convenzionali.
Da un’indagine condotta da AstraRicerche su un campione di 1.000 italiani  di età compresa fra 18 e i 65enni emerge che 7 su 10 conoscono gli ingredienti necessari, considerando come imprescindibili, ma se 6 italiani su 10 si dichiarano fedeli alla ricetta classica, non manca un certo estro interpretativo: 1 italiano su 5 (soprattutto uomini) si avventura nelle “diversamente carbonare” con un ingrediente fuori dagli schemi: panna (6.5%) o latte (3.1%), peperoncino (5.2%), prezzemolo (4.4%), pomodoro (3.8%). Non solo: c’è chi utilizza il prosciutto al posto del guanciale (3.5%) o componenti ‘veg’ (funghi 2.5%, pisellini 2.2%, zucchine 2.1%).
Non mancano, infine, le declinazioni regionali di (non) Carbonara, utilizzando le eccellenze del territorio.

Maratona social il 6 aprile: come partecipare

Per partecipare all’evento virtuale le regole sono semplici: il 6 aprile, a partire dalle ore 12 (CET) basterà seguire gli hashtag #CarbonaraDay e #Carbonara70 e cimentarsi nella propria versione in dirette video, condividere opinioni, foto e consigli su Instagram, Facebook e Twitter. In qualità di eccellenza italiana celebre nel mondo, il Carbonara Day anticipa la Giornata Nazionale del Made in Italy (15 aprile), istituita quest’anno dal MIMIT e dedicata alla promozione della creatività e dell’eccellenza italiana, coinvolgendo Istituzioni, scuole e imprese, con eventi dedicati. Unione Italiana Food aderisce alla Giornata e sono numerose le iniziative sul territorio che le aziende associate hanno attivato nella settimana dal 15 al 21 aprile.

Mauritius, insolita terra di castelli e fortezze

Mauritius, insolita terra di castelli e fortezze

Mauritius, la perla dell’Oceano Indiano di cui vi abbiamo già parlato raccontandovi della sua cucina (articolo qui) e dei suoi paesaggi più maestosi e affascinanti (articolo qui) non smette mai di stupire anche i visitatori più affezionati.
Una vacanza sola non basta per scoprire tutti i tesori che custodisce: le spiagge da sogno, l’entroterra lussureggiante, le deliziose pietanze da accompagnare a soft drink, birra o rum, i siti patrimonio Unesco, le eccellenti strutture ricettive con servizi di qualità e le molteplici tradizioni, che testimoniano una storia tanto ricca quanto varia, ancora tangibile nella stessa essenza dell’isola e nelle persone che la abitano.
L’incontro “diacronico” tra Africa, Asia ed Europa (attraverso flussi migratori e domini coloniali) ha contribuito significativamente a dare forma a Mauritius in termini sia culturali che paesaggistici.
Tanto che, al fascino dell’isola tropicale si aggiungono elementi, che a prima vista, parrebbero estranei al contesto: chi si aspetterebbe, infatti, di trovare dei castelli a Mauritius?
Naturalmente, non si parla di torri merlate e passaggi segreti ma del senso più ampio della parola francese Château, che si riferisce non solo alle dimore di re e regine, ma anche lussuose proprietà legate alla produzione di vino o altri alcoolici.
Più specificamente, a Mauritius, queste dimore erano spesso le abitazioni dei possidenti che gestivano la coltivazione di canna da zucchero, per la produzione di zucchero e rum. Ecco quali sono. 


Le Domaine de Labourdonnais

Questa proprietà è nota per l’omonimo castello (Château de Labourdonnais, appunto), costruito tra il 1856 e il 1859 e abitato per oltre 150 anni.
L’accesso alla villa è spettacolare, con un ombreggiato viale alberato che conduce all’ingresso dello Chateau. L’edificio è in stile neoclassico, con il piano terra rialzato e un’ampia veranda che lo avvolge.
La carta da parati meravigliosamente dettagliata della sala da pranzo è intervallata da grandi mobili in teak e legno nero, su cui campeggiano enormi barattoli usati per marinare il pesce e la carne nella dispensa; entrando nelle varie stanze il profumo delle spezie e quello del legno ammantano gli ambienti e rendono l’atmosfera ancora più inebriante.
Al piano superiore, oltre ad ammirare l’elegante camera da letto, è possibile scoprire più a fondo la storia della proprietà.
La tenuta è circondata da frutteti e giardini paesaggistici da scoprire passeggiando. Per riprendere le forze, La Table du Château (proprio a fianco dell’edificio principale, serve piatti preparati con frutta e verdura raccolta nella tenuta. In alternativa, la caffetteria La Terrasse offre opzioni per pranzi più leggeri. È possibile, inoltre, acquistare marmellate e rum preparati con i frutti della tenuta. 


Le Château de Bel Ombre

Questa iconica dimora coloniale (XIX secolo) oggi riconvertita in hotel e ristorante è costruita nello stesso stile dello storico Treasury Building di Port Louis ed evoca scene di altri tempi.
Accedendo alla tenuta ciò che colpisce maggiormente lo sguardo è il maestoso albero di baniano adiacente alla veranda, testimone silenzioso della storia della regione: si racconta che abbia 200 anni.
L’interno della dimora rispecchia la regalità preannunciata dal baniano: è infatti caratterizzato da mobili antichi e tavoli con raffinati servizi in porcellana, che trasmettono un senso di accoglienza ed eleganza, in sintonia con la storia dell’edificio e il suo attuale uso.
Tutto intorno, il verde rigoglioso dei magnifici giardini alla francese abbraccia questa meravigliosa proprietà. 

foto Grey Fox

Cittadella di Port Louis

Un altro sinonimo di castello è fortezza, e a Mauritius non manca neanche questo. Adagiata in cima a una collina che domina la città e il porto, la Cittadella di Port Louis (Fort Adelaide o La Citadel) è una fortificazione costruita durante il dominio britannico tra il 1834 e il 1840 per assicurare il controllo della città in caso di disordini dovuti all’abolizione della schiavitù.
Il nome Fort Adelaide è in onore della moglie del re Guglielmo IV. Oggi vi si tengono concerti locali e internazionali e spettacoli artistici. Vale la pena salire fin qui per godersi il meraviglioso panorama, che include anche lo Champ de Mars, il campo per le corse dei cavalli. Ma questa è un’altra storia…

Intorno a Torino: le ville sabaude della vita a Corte

Intorno a Torino: le ville sabaude della vita a Corte

Viaggio fra le bellissime e sontuose residenze che vennero costruite per creare una raffinata “Corona di Delizie” intorno alla capitale, a testimonianza della magnificenza di Casa Savoia.
La Reggia di Venaria e la Palazzina di Caccia di Stupinigi, maestosi complessi barocchi, nacquero come residenze di caccia e di piacere.
Hanno origini difensive i castelli di Rivoli – oggi Museo di Arte Contemporanea – e di Moncalieri inizialmente edificati come roccaforti e successivamente trasformati in accoglienti maisons de plaisance. Il Castello della Mandria, all’interno dell’omonimo Parco, divenne residenza e luogo prediletto del primo re d’Italia.


Reggia di Venaria

La Reggia di Venaria costituisce uno dei più riusciti esempi della “Corona di Delizie”, il sistema di residenze progettate intorno a Torino nelle quali il sovrano fra Seicento e Settecento abitava circa sei mesi l’anno, durante la stagione più calda.
Visitando i magnifici ambienti della Reggia e passeggiando nel suo vasto parco si respira un’atmosfera sospesa tra passato e futuro. Costruita a partire dal 1658 dall’architetto Amedeo di Castellamonte per Carlo Emanuele II, la Venaria Reale comprende il borgo, il parco e i boschi destinati all’attività venatoria. A questa pratica rimandano anche gli affreschi che decorano le stanze, raffiguranti Scene di cacce infernali e Scene di cacce acquatiche entro bizzarre cornici in stucco e le tele del pittore fiammingo Jan Miel nella grande Sala dedicata alla dea Diana, che rappresentano i principali tipi di cacce praticati dal duca e dai suoi cortigiani.
Fra fine Seicento e inizio Settecento Vittorio Amedeo II trasformò il complesso da residenza di caccia a vera e propria reggia, affidando i lavori prima a Michelangelo Garove e poi al siciliano Filippo Juvarra, che rese Venaria un gioiello del Barocco. L’architetto l’arricchì con gli immensi spazi della Scuderia Grande, che poteva ospitare fino a duecento cavalli, della Citroniera, destinata alla conservazione delle piante da frutto durante i mesi invernali, e della Regia cappella di corte (poi detta di Sant’Uberto), un suggestivo ambiente a croce greca modellato dalla luce che raccorda pittura, scultura ed architettura, con pale d’altare di grandi pittori italiani (Sebastiano Conca, Francesco Trevisani e Sebastiano Ricci) e sculture in marmo del toscano Giovanni Baratta. Ma è con la Galleria Grande (1718-72) che Juvarra realizzò il suo capolavoro. Lunga 80 metri, nella galleria è la luce l’assoluta protagonista. Essa filtra dalle finestre su entrambi i lati e dagli oculi aperti sull’imposta della volta e anima le ricche decorazioni a stucco in un costante e mutevole gioco di luci e ombre. A completare la Reggia fu poi Benedetto Alfieri, cui si devono le nuove scuderie e le gallerie di collegamento fra le parti juvarriane.
Per tutto il Settecento, Venaria fu il principale teatro del potere politico e della magnificenza artistica di Casa Savoia. Nell’Ottocento, poi, fu trasformata in caserma, progressivamente abbandonata al degrado e privata dei suoi arredi. Dal 1999 è stata oggetto d’un pionieristico e impegnativo intervento di restauro che ha permesso, nel 2007, la sua restituzione al pubblico e l’allestimento di un articolato percorso di visita, arricchito ogni anno da importanti mostre internazionali di arte antica e moderna.
Il dialogo tra memoria del passato e contemporaneità prosegue anche nei suoi ampi giardini, nel 2019 vincitori del premio “Parco più bello d’Italia”, dove si possono ammirare esposizioni di arte contemporanea, il Giardino delle sculture fluide di Giuseppe Penone, le installazioni di Giovanni Anselmo e di Mimmo Paladino e il complesso della Fontana dell’Ercole, capolavoro seicentesco di Amedeo di Castellamonte.


Castello di Rivoli

Il Castello di Rivoli sorge in un punto di controllo strategico a 15 km da Torino, sull’anfiteatro morenico che si apre all’imbocco della Val di Susa, a ovest rispetto la città.
Le origini, come roccaforte militare, risalgono al XI secolo. Proprietà sabauda dal 1247, dalla seconda metà del Cinquecento l’edificio iniziò ad assumere l’aspetto attuale. Prima residenza in Piemonte del duca Emanuele Filiberto, venne trasformato in palazzo di loisir grazie agli interventi dell’architetto Ascanio Vitozzi e di Carlo e Amedeo di Castellamonte. Il complesso si arricchì in quel momento della Manica Lunga, pinacoteca ducale, di oltre 140 metri.

All’inizio del Settecento divenne uno dei luoghi più importanti per la vita della corte sabauda. Poco dopo aver acquisito il titolo reale (1713), Vittorio Amedeo II incaricò Filippo Juvarra di ricostruire il castello, il quale progettò un maestoso edificio che tra 1717 e 1727 convogliò gli investimenti artistici della corte. Per la quadreria furono selezionate le opere dei migliori artisti del tempo, come Gaspar van Wittel, Sebastiano Conca, Francesco Solimena, Sebastiano Ricci, Francesco Trevisani.
A seguito della prigionia di Vittorio Amedeo II, dal 1731 al 1732, il monumentale progetto juvarriano ebbe una battuta di arresto rimanendo incompiuto visto che il nuovo re, Carlo Emanuele III, convogliò altrove gli sforzi economici e progettuali, preferendo altre residenze come la Palazzina di Caccia di Stupinigi. Il Castello di Rivoli, edificato solo per metà, fu ancora oggetto di interventi a fine Settecento ad opera di Carlo Randoni, cui va attribuita la regia delle decorazioni delle sale al secondo piano, fra cui il salotto cinese (1793).
Con la Restaurazione, l’arredo mobile fu in gran parte disperso. Venduto al comune di Rivoli nel 1883, il castello diventò una caserma militare. Colpito dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale, fu oggetto di un progetto di demolizione, fortunatamente mai realizzato.
Un primo tentativo di recupero dell’edificio fu avviato in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961. Dal 1979, grazie alla decisione della Regione Piemonte di acquisirlo in comodato per 29 anni, fu avviato un lungo cantiere di restauro guidato dall’architetto Andrea Bruno che pose fine al degrado dell’edificio, creando una suggestiva linea di continuità tra passato, presente e futuro.
Nel 1984 vi fu inaugurato al suo interno il primo Museo d’Arte Contemporanea d’Italia. Il Museo possiede tre piani espositivi nell’Edificio Castello e quello, unico nel suo genere, al terzo piano della Manica Lunga. La Collezione annovera opere dagli anni Sessanta ad oggi, con particolare riguardo verso l’Arte Povera, la Transavanguardia, Minimal, Body e Land Art, oltre che le mostre temporanee. Grazie all’accordo stipulato nel 2017 tra la Fondazione Cerruti e il Castello di Rivoli, dal 2019 è aperto uno spazio ad essa destinato, con una raccolta che spazia dalle opere del Rinascimento ai grandi maestri dell’arte contemporanea come Bacon, Picasso, Modigliani, Warhol, Klee e Kandinskij.


Castello di Moncalieri

Il Castello di Moncalieri, che si erge imponente sulla collina a sud-est di Torino è una delle più antiche e grandi residenze sabaude costituenti il sistema della “Corona di delizie”.
Il primo nucleo venne edificato nel XIII secolo con funzione difensiva; risalgono invece al tardo quattrocento le due torri a pianta circolare oggi inglobate nella facciata rivolta verso la città. Nel Seicento venne trasformato da Cristina di Francia e da suo figlio Carlo Emanuele II in residenza di svago per la corte. La struttura a C con possenti torrioni angolari si apre verso il retrostante parco collinare vasto circa 5 ettari.
Nel Castello di Moncalieri Vittorio Amedeo II fu arrestato nel 1732 per aver tentato di revocare la sua abdicazione e tornare al potere, morendovi poco dopo.
Intorno al 1775 fu Vittorio Amedeo III ad incaricare l’architetto Francesco Martinez (nipote di Juvarra) di ampliare gli spazi e di crearne di nuovi, come la scenografica Cappella Regia.
Tra il 1788 e il 1789, vennero riallestiti da Leonardo Marini gli appartamenti al primo piano per i principi di Piemonte, mentre Giovanni Battista Piacenza e Carlo Randoni si occuparono di quello al piano terra, destinato ai duchi d’Aosta.
Le complesse vicende del XIX e XX secolo segnarono il destino della residenza. Durante l’occupazione francese divenne caserma e ospedale militare, perdendo gran parte degli allestimenti e degli arredi. Cancellato il passaggio delle truppe, il Castello tornò ad essere abitato, amato dalle donne di Casa Savoia, in particolare la regina Maria Adelaide e le principesse Maria Clotilde e Maria Letizia. Di questa fase tardo ottocentesca, allestita dall’architetto Domenico Ferri secondo uno stile eclettico di gusto francese, rimane come esempio l’appartamento del primo re d’Italia Vittorio Emanuele II e della sua consorte Maria Adelaide, con lo spettacolare Salotto Blu sfarzosamente arredato e decorato in stile neobarocco.
Alla fine della prima guerra mondiale Vittorio Emanuele III cedette allo Stato alcuni castelli della Corona, fra essi Moncalieri, all’interno del quale era comunque stata garantita la permanenza della principessa Maria Letizia fino alla morte, avvenuta il 25 ottobre 1926. Due anni dopo fu inaugurata al suo interno la Scuola di reclutamento per gli Ufficiali di complemento del Corpo d’Armata di Torino. Divenne caserma dell’Arma dei Carabinieri dal 1945 e oggi ospita il 1° Reggimento Carabinieri “Piemonte”.
Nel 2008 un incendio, divampato nel torrione sud-est, ha distrutto parte dell’appartamento di Vittorio Emanuele II, incluso nel percorso di visita, causando gravi danni ed una irreparabile perdita per il patrimonio storico e culturale italiano, come la sala nella quale il 20 novembre 1849 il re firmò il Proclama di Moncalieri, determinante per la futura unità della nazione.
I complessi restauri, conclusisi nel 2017, hanno restituito al pubblico questi spazi con un allestimento evocativo che, tramite un sistema di pannelli e velari, mostra “in trasparenza” il loro aspetto prima dei danneggiamenti.


Palazzina di caccia di Stupinigi

La Palazzina di Caccia di Stupinigi è un gioiello architettonico immerso nella campagna torinese, a soli 10 km da Piazza Castello a Torino, cui fa da cornice lo strepitoso panorama delle Alpi. Considerata il capolavoro dell’architetto Filippo Juvarra – che ne fece un modello internazionale per le residenze di loisir – e voluta da Vittorio Amedeo II per gli svaghi della corte sabauda, fu edificata dal 1729 al centro di una vasta riserva di caccia, instaurando un rapporto privilegiato con l’ambiente circostante.
La razionale gestione del territorio emerge nella progettazione di un vero e proprio agglomerato urbano al servizio della Palazzina, completo di scuderie, magazzini, cascine, canili e abitazioni. Dal 1754, il complesso divenne facilmente raggiungibile dalla capitale attraverso una strada alberata.
Per l’edificio principale, Juvarra concepì una struttura a forma di croce di sant’Andrea nei cui bracci, proiettati verso i giardini, trovavano spazio gli appartamenti destinati alla famiglia reale. Al centro della croce, perno dello schema geometrico su cui è impostata la planimetria, sorge l’ampio salone ellittico ideato come uno spettacolare spazio per le feste. Interamente dipinto a finte architetture dai quadraturisti bolognesi Domenico e Giuseppe Valeriani, il salone coinvolge lo spettatore in uno scenografico dialogo tra pittura, scultura e architettura, amalgamate dalla luce che entra dalle ampie finestrature. Il tema della caccia, scelto per il centrovolta del salone con l’Apoteosi di Diana, è, insieme a quello della natura, il filo conduttore per gli affreschi, gli arredi e le sculture che ornano gli ambienti della residenza.
Su richiesta di Carlo Emanuele III (successore di Vittorio Amedeo II) dal 1740 Benedetto Alfieri ampliò la palazzina con due appartamenti destinati ai figli del nuovo re, il duca di Savoia e il duca di Chiablese. Gli interni si caratterizzarono per la decorazione rococò incentrata sul fascino degli specchi e sul gusto per l’esotismo, con salotti rivestiti di carte importate dalla Cina. Con il 1798 e l’occupazione francese si conclusero gli ampliamenti, durati tutto il secolo; durante l’Ottocento la palazzina fu riarredata più volte per ospitare i sovrani che la scelsero come luogo di villeggiatura, come Carlo Felice e Maria Cristina di Borbone e, ancora nel Novecento, Margherita di Savoia.
Dal 1919 la Palazzina di Caccia di Stupinigi, affidata all’Ordine Mauriziano, divenne sede del Museo di Arte e ammobiliamento. Importanti lavori di restauro sono stati condotti recentemente e dal 2016 il percorso di visita ripristinato prevede la quasi totalità degli appartamenti aulici. La conservazione e valorizzazione di questo patrimonio si deve oggi alla Fondazione Ordine Mauriziano.

La pesca tradizionale del Trasimeno diventa Presidio Slow Food

La pesca tradizionale del Trasimeno diventa Presidio Slow Food

Un importante riconoscimento per l’economia del territorio. Il lago umbro è ricco di pesci: dalla carpa alla tinca, dall’anguilla al persico.
Negli ultimi anni, complice la crisi economica, diversi giovani si sono avvicinati a un mestiere millenario: oggi i pescatori sono una cinquantina


La pesca “passiva”

La pesca tradizionale del Lago Trasimeno entra a far parte della famiglia dei Presìdi Slow Food dell’Umbria.
«La nostra è una pesca passiva: stendiamo le reti e aspettiamo che il pesce, muovendosi, rimanga imprigionato nelle maglie. Funziona così da tremila anni, da quando l’uomo ha cominciato ad abitare le coste del nostro lago e a uscire in barca» sottolinea Aurelio Cocchini, un’esperienza da pescatore lunga
Il nostro viaggio tra varietà vegetali, razze animali, saperi e tradizioni da difendere e promuovere oggi ci porta in Umbria, e più precisamente nel quarto lago più esteso d’Italia. Il Trasimeno è un bacino d’acqua dolce particolare, caratterizzato da una profondità media che non raggiunge i cinque metri: un lago che soffre la scarsità d’acqua (in questi giorni il livello è oltre un metro più basso dello zero idrometrico), ma dove il pesce non manca.

«L’opportunità di diventare Presidio Slow Food – dice Guido Materazzi, un altro dei pescatori coinvolti nel progetto – arriva in un momento storico importante, in cui il mestiere del pescatore ha necessità di coniugare tradizione e innovazione, buone pratiche e sostenibilità economica».
Fare economia tenendo a mente le generazioni future, come ricorda Ivo Banconi, presidente della Cooperativa Stella del Lago, che aderisce al Presidio, sottolineando che «il Presidio è un ulteriore tassello verso la giusta condivisione di strategie comuni a salvaguardia dell’ambiente, nell’intento di preservare quell’immagine lasciataci in eredità da chi ha dato al lago la sua vita».


Cosa prevede il disciplinare

Persico reale, carpa, pesce gatto, latterino, tinca, persico-trota, anguilla e capitone sono le specie ittiche comprese nel disciplinare che regola il Presidio Slow Food e sono, soprattutto, le protagoniste del lago. «A seconda di quale pesce si vuole pescare si utilizzano reti con maglie più o meno larghe – aggiungono i pescatori -. La carpa viene pescata con una maglia di 90-100 millimetri, mentre per specie più piccole si adoperano maglie che vanno dai 25 ai 40 millimetri».
Il resto lo fa l’intuito, la conoscenza del lago e delle abitudini dei pesci. Ma non è detto che la battuta di pesca sia sempre un successo: può capitare che si esca per giorni e si torni a mani vuote. Il pescatore dev’essere capace di mantenere lo stesso spirito anche quando le giornate vanno male.
Naturalmente, serve anche una certa dimestichezza nel guidare l’imbarcazione tradizionale. È stretta e lunga, poco più di un metro per cinque e mezzo, e ha il fondo piatto perché, un tempo, le attività di pesca si svolgevano perlopiù nelle vicinanze delle coste e nei canneti. Ma oggi si pesca anche al largo, dove le onde possono rendere difficile manovrare la barca.


Un pescato imprevedibile

«Siccome la nostra è una pesca di attesa, non aggressiva, risulta anche altamente sostenibile – spiega il referente Aurelio Cocchini -, ed è pressoché impossibile che l’attività si intensifichi al punto da intaccare le riserve di pesce nel lago».
Per lo stesso motivo, però, è anche fortemente imprevedibile: «Non posso prevedere di che cosa rifornirò i ristoranti, i negozi o la nostra locanda, perché non ho certezza di che cosa pescherò. Se, da un lato, questo rappresenta un handicap economico, dall’altro nasconde un vantaggio: quello di non rischiare di mettere in crisi gli stock ittici, la nostra fonte di lavoro e di sostentamento».
I pescatori professionisti attivi sul lago Trasimeno oggi sono una cinquantina, la maggior parte dei quali aderiscono a due cooperative: «Negli ultimi tempi l’età media si è abbassata parecchio – conclude Cocchini -. Merito di tanti giovani che, faticando a trovare un lavoro in altri settori a causa della crisi economica, si sono avvicinati al mondo della pesca».
Per questo le cooperative continuano a lavorare, addirittura con nuovi investimenti nella filiera di trasformazione del pescato, nella commercializzazione del prodotto e anche nella ristorazione.